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Underground e oltre. L’innovativa visione artistica di Fabio Weik

words: Rina Bekshiu

07.11

Underground e oltre. L’innovativa visione artistica di Fabio Weik

Underground e oltre. L’innovativa visione artistica di Fabio Weik

Fabio Weik, classe 1984, è un writer attivo dal 1997 e un artista contemporaneo di spicco. Membro storico della crew di graffiti TDK e fondatore del collettivo Interplay, ha partecipato a numerosi progetti urbani di rilievo, sia in Italia che all’estero, collaborando con istituzioni locali e fondazioni internazionali impegnate nell’arte urbana e nei processi di rigenerazione urbana. Pur mantenendo salde le sue radici nella cultura underground e nell’esplorazione continua del lettering, il desiderio di raggiungere una sperimentazione più ampia lo ha condotto a navigare in nuovi orizzonti nell’arte visiva, avvicinandosi anche a contesti più istituzionali.

In una conversazione precedente mi hai accennato al periodo trascorso con il collettivo Interplay. Come è avvenuto il passaggio dalle tue radici nel mondo dei graffiti all’esplorazione dell’arte multidisciplinare?

Il passaggio dalle mie origini, legate al mondo dei graffiti, all’esplorazione di forme più ampie di espressione artistica è avvenuto in modo naturale, soprattutto spinto da una sorta di stanchezza nei confronti del sistema comunicativo in cui ero immerso. Come writer, mi trovavo all’interno di una dinamica in cui, come spesso accade nell’ambiente hip-hop, si comunica essenzialmente solo con altri esponenti della stessa disciplina. Era un dialogo one way, a senso unico.

Senza contare che il mondo dei graffiti si basa su una dinamica che ha poco a che vedere con l’arte in senso tradizionale, nonostante si tenda a farli rientrare in questo contesto. In realtà, sono principalmente un’espressione di egocentrismo: si tratta di diffondere il proprio nome nel maggior numero possibile di superfici, con lo stile più riconoscibile e originale, rispettando un codice legato al lettering e alla competizione. Oltre questo, c’è poco altro. Per quanto possa essere formativo dal punto di vista tecnico e processuale, non lo trovavo più stimolante dal punto di vista comunicativo.

Ho sentito così l’esigenza di uscire da questa nicchia e di smettere di rivolgermi solo alla parte più underground di questo mondo. Non si trattava tanto di voler raggiungere un pubblico più vasto, ma di voler esplorare tematiche di ampio respiro che potessero esprimere in modo più completo chi sono e cosa voglio comunicare. Questo cambiamento è stato facilitato anche dall’incontro con altre figure del mondo artistico, che mi hanno aperto nuove prospettive. Un momento cruciale è stato quando ho partecipato al progetto “Street Art, Sweet Art”, co-curato da Dario Fo, che portava i writer delle periferie in un contesto museale, esperienza che è stata una sorta di kick, che mi ha spinto a riconsiderare le potenzialità della mia pratica.

Guardando sempre ai tuoi esordi, quali sono state le influenze che hanno maggiormente plasmato il tuo percorso? Ci sono stati artisti o movimenti specifici che ti hanno ispirato?

Inizialmente, come ragazzo di periferia con numerose responsabilità lavorative, soprattutto legate al mio passato nel mondo aeronautico, avevo una visione piuttosto rigida e gerarchica. Idealizzavo persino il mondo dei graffiti, pensando che chi ne sapeva di più in questo campo avesse una maggiore comprensione anche dell’arte contemporanea. Uno degli incontri più significativi è stato con Arturo Schwarz, una figura di grande rilievo nel mondo dell’arte e della cultura in Italia. Frequentavo spesso casa sua e osservavo attentamente come lui interpretava l’arte e la rappresentava pubblicamente. Ho iniziato poi a ispirarmi a figure che non appartenevano necessariamente al mondo dell’arte contemporanea convenzionale. Ad esempio, Alfredo Jaar, con la sua forte connessione al reportage e al giornalismo, mi ha influenzato profondamente; così come Anselm Kiefer, con il suo approccio filosofico.

Nella tua ultima esposizione, Parà Dòxa, si nota subito come tu mantenga un legame con il mondo dei graffiti. Ma andando oltre i tuoi strumenti classici, quali sono state le prime esplorazioni con mezzi più vicini all’arte?

Ho iniziato il mio percorso artistico attraverso la fotografia, sia digitale che analogica. Era un approccio amatoriale, nato dalla passione per l’immagine e dall’influenza di persone che frequentavo, molti dei quali fotografavano la scena underground. Anche io volevo conservare e dare vita a quei momenti, ma presto ho dovuto abbandonare la fotografia per motivi economici: gli strumenti erano troppo costosi. Così, ho iniziato a cercare materiali più accessibili e mi sono avvicinato alla pittura spray, ai pastelli, e a qualsiasi cosa avessi a portata di mano, affinando le tecniche in base a quello che trovavo.

Oggi, però, della mia pratica originaria non è rimasto molto. Riservo l’uso della pittura spray esclusivamente ai muri, mantenendo una netta distinzione tra l’ambito dei graffiti e il mio lavoro artistico attuale. Per me, i graffiti restano legati alla cultura hip-hop, mentre il mio percorso artistico si muove ormai su un piano diverso, che vedo come un’espressione socialmente utile. Non lo definirei neanche “fare arte”, ma piuttosto una necessità comunicativa, rivolta più a me stesso e al mio tempo, senza la pressione di un pubblico.

Un aspetto che trovo interessante nel tuo lavoro è il modo in cui spesso avvii un progetto partendo da una riflessione su un fatto mediatico, per poi tradurre questa riflessione in contributo visivo. Ti andrebbe di dirci di più?

Penso che tutto quello che riguarda il mondo creativo determini dei ruoli. Io penso di avere un ruolo in questo tempo. Ognuno di noi ha un ruolo in questo tempo, no?

Nel mio caso, si tratta di affrontare la necessità di analizzare l’ambiente mediatico, che stabilisce dei tempi non tanto dettati dalla società, quanto piuttosto dalle sue mode estetiche. Volevo fornire una spiegazione e creare un confronto che mettesse in luce come spesso questi tempi siano influenzati più da un bisogno mediatico che da una vera esigenza sociale

Questa mia esigenza di analizzare e interpretare determinate dinamiche si è concretizzata, ad esempio, nel progetto “Ermeneutica”, che ha ispirato il titolo di alcune delle mie serie. Nella serie ho cercato di mettere in dialogo passato e presente, riappropriandomi di immagini d’archivio e ricollegandole a temi sociali e mediatici contemporanei, lasciando volutamente aperti interrogativi e spunti di riflessione. La mia esigenza di analizzare e spiegare questo tipo di comunicazione nasce dal desiderio di rappresentare in modo asettico e critico il tempo che stiamo vivendo.

Ricordo momenti significativi della mia infanzia legati a eventi mediatici. Per esempio le Torri Gemelle. Questi eventi, più di altri, rappresentano capitoli della nostra vita. Oggi, quando pensiamo al futuro, ci sarà sempre un riferimento alla pandemia: “Quando c’era la pandemia, io stavo facendo questo.” Questi eventi determinano una parentesi della nostra esistenza. Ogni progetto è un modo per esplorare come questi eventi plasmino non solo la nostra identità individuale, ma anche quella collettiva. Volevo creare un dialogo che invitasse il pubblico a riflettere su come la storia, l’arte e la società siano inestricabilmente legate.

La comunicazione con il pubblico non è il mio obiettivo principale. Piuttosto, cerco di stimolare una riflessione critica sulla realtà storica e mediatica che stiamo vivendo. Quando realizzo installazioni, il pubblico diventa parte integrante dell’opera stessa, contribuendo a creare un ambiente di tensione che riflette le sfide contemporanee. Il mio intento è mettere in discussione le narrazioni dominanti, e ogni elemento del progetto espositivo diventa parte di questo dialogo, spingendo il pubblico a essere attore attivo nella riflessione. Ogni progetto è un’occasione per stimolare una consapevolezza più ampia, coinvolgendo il pubblico e rendendolo parte di un processo di riflessione critica. Questo è il vero obiettivo del mio lavoro.

Tra i tuoi numerosi progetti spicca Ermeneutica, ci racconti com’è nato?

Ermeneutica nasce dall’esigenza di raccontare la società odierna e di analizzare il modo in cui il sistema mediatico funziona. A differenza di altri contesti, come quello americano, dove la comunicazione è fortemente consumistica, in Italia c’è una pressione costante a schierarsi: ci si trova tra le posizioni di chi è contro i migranti e quelle di chi cerca di sostenerli.

Il dibattito diventa quindi una vera e propria moda mediatica, un modo per riempire il vuoto comunicativo. I migranti vengono spesso colpevolizzati per le crisi economiche, per la mancanza di lavoro e, in un certo periodo, persino per la pandemia.

Quando la pandemia ha colpito realmente, il focus dell’informazione è cambiato drasticamente: i profughi, che erano stati al centro dell’attenzione un mese prima, sono stati rapidamente dimenticati. Questo ribaltamento mi ha spinto a raccontare questa storia con la serie di opere di Ermeneutica. In questo contesto, ho utilizzato le coperte isotermiche come punto di partenza. Ho cominciato nel 2016 con i miei primi esperimenti e, nel 2019, sono riuscito a integrare nella mia opera dei cartigli, realizzati sia a penna che mediante stampa, che esprimevano concetti ispirati alla mitologia. Un esempio è il mito di Perseo, un uomo trovato in mare che si rivela essere un semidio accolto dagli dèi e trasformato in eroe, un’accoglienza che le istituzioni attuali spesso non offrono.

Il termine “Ermeneutica” deriva da Hermes, il dio della comunicazione e dei ladri, non semplicemente della velocità come comunemente si pensa. Hermes era l’unico dio in grado di condurre gli umani all’Olimpo, e il suo approccio era spesso subdolo, una sorta di ricatto che richiamava un’immagine moderna degli scafisti.

Il mio ruolo, attraverso l’arte, è quello di difendere un’analisi più profonda, di dare voce a chi spesso non lo ha.

In che modo questo si riflette nel tuo lavoro artistico?

L’uomo non arriva ai concetti in modo diretto, ma li comprende attraverso immagini simboliche o legate alla storia. Così, nel mio lavoro, utilizzo materiali e tecniche che riflettono questa mediazione, intrecciando il personale e il professionale. Prendi ad esempio il progetto Parà Dòxa, in cui parte del corpus di opere è rappresentato da dipinti a olio e lastre stampate che raffigurano gli uccelli tuffatori Sule insieme ai pesci volanti, con citazioni visive dal repertorio di immagini personalmente archiviate da me a partire da alcuni documentari degli anni ottanta.

Parà Dòxa si distingue per la sua profonda coerenza con il tuo approccio alla riflessione artistica. Ritieni che ci siano alcune differenze rispetto ai tuoi lavori precedenti?

Sinceramente, non vedo mai una netta distanza tra i miei lavori. Se guardi i miei progetti nel complesso, ciascuno di essi comunica con gli altri. Non parlo di comunicazione tecnica, ma piuttosto dell’utilizzo dei materiali. Ogni volta prendo una testimonianza reale di un materiale utilizzato in un determinato contesto e lo riprendo per creare un processo creativo. Questo processo può essere visivo, video o altro, ma c’è sempre un elemento di connessione. In Ermeneutica ho utilizzato coperte isotermiche; nella mia installazione Mediaindigestione ho impiegato fogli di giornale e ritratti delle subrette degli anni novanta.

Oltre ai tuoi progetti personali, sei anche direttore creativo. Ci parli di come è nata questa attività?

Quando lavori a lungo nell’ambito dell’arte contemporanea, arrivi a comprendere che la creatività è fondamentale per il tuo lavoro. Così ho pensato di applicare la mia personale pratica d’artista anche ad altri ambiti: due anni fa, ho deciso di creare uno studio creativo; Fabio Weik studio; con cui ho collaborato a progetti nel mondo della musica e della moda; per citare alcuni lavori passati: Township Rebellion e Boss Doms nel mondo della musica; Missoni nell’alta moda, nel 2009.

Come ti ricordi l’esperienza con Missoni?

Lavorare con Missoni è stata un’esperienza fantastica. Il loro approccio alla moda è ancora molto artigianale. Ho avuto l’opportunità di collaborare direttamente con Angela [n.d.r. Angela Missoni], integrando i miei graffiti nel loro concept. Era il 2009-2010, e lei voleva che la mia firma, “Weik”, fosse presente nei suoi capi. Così abbiamo creato una linea che ha sfilato, fondendo il concetto di tribù, che si avvicina a quello dei graffiti, espresso con la moda.

E per quanto riguarda le tue esperienze nel campo musicale?

La musica è sempre stata presente. Arrivo da situazioni periferiche, come il muretto degli anni ‘90 a Milano, e faccio parte della crew TDK, attiva dal 1989. Da lì è nata la Spaghetti Funk, e questo background mi ha portato a collaborare con artisti come i Massive Attack. Sono diventato anche direttore creativo in ambito musicale con Boss Doms, creando progetti che univano musica e arte.

In ambito internazionale sto lavorando a dei progetti in collaborazione con la scena musicale dance hall/elettronica di Miami. Il rapporto con gli artisti è sempre stato molto intenso e creativo, il che ha arricchito il mio lavoro complessivo. Ci sono tanti talenti con cui ho collaborato e che continuano a influenzare il mio percorso artistico.

Il tuo legame con l’underground è vario e interessante. Come descriveresti il tuo rapporto con questa ampia scena culturale?

Il mio rapporto con l’underground è profondo e sincero. Fin da giovane, sono sempre stato attratto da tutte le forme di espressione che si sviluppano al di fuori dei circuiti mainstream. Collaboro con figure iconiche come Franko B, pioniere della body art, performer e attivista, e il mio obiettivo è immergermi totalmente in queste realtà, non limitandomi a leggere articoli su di esse. Vado direttamente a parlare con le persone, vivendo e respirando l’underground.

Quindi, per te, l’underground non è solo una questione di estetica, ma un modo di vivere e interagire con il mondo?

Esatto. Non si tratta solo di moda o di stili, ma di una comunità vibrante di persone che sfidano le convenzioni. Ho viaggiato per il mondo, incontrando artisti e appassionati di diverse sub culture, dai graffiti alle scene punk, techno e hip hop. Queste esperienze mi hanno aperto gli occhi su realtà che spesso non arrivano in Europa, ma che sono ricche di autenticità.

Puoi raccontarci di qualche esperienza particolare che hai vissuto in questi ambienti?

Ho incontrato ragazzi che si attaccano ai treni o che costruiscono biciclette per affrontare discese folli in Brasile. Sono realtà che sembrano lontane dalla nostra, ma che hanno molto da insegnare. Ho viaggiato in posti come Dubai, dove l’underground può assumere forme inaspettate e complesse, legate a contesti socio politici particolari. Ho vissuto in mezzo a queste culture, scoprendo la bellezza delle sub-culture di cui non si parla mai nei media tradizionali.

Il mio lavoro è un riflesso di queste esperienze. Non mi limito a realizzare graffiti, ma mi espongo anche per cause più grandi, come i diritti dei più deboli. Credo sia fondamentale utilizzare la propria voce per affrontare temi rilevanti, invece di restare chiusi nella propria nicchia. Molti artisti che si considerano underground dimenticano il vero significato del termine, rimanendo isolati e ignorando ciò che accade nel mondo.

Tra tutti i tuoi lavori, ce n’è uno a cui sei particolarmente legato a livello affettivo?

Onestamente, dopo aver completato un lavoro, di solito non mi piacciono più. Quando ho finito un progetto, mi sento come se fosse già passato. Cerco di dare a una determinata opera la possibilità di svilupparsi in un suo contesto storico, di distaccarsi da me.

Se dovessi scegliere, però, direi un disegno che feci da bambino. Era un ragazzetto che aveva una faccia che fumava sulla sua pancia. Quella per me è ancora la mia opera migliore. Avevo cinque o sei anni, e mi ricorda la mia creatività infantile. Per me, quel disegnino è l’opera più figa che abbia mai realizzato. È incredibile come un lavoro così semplice possa restare impresso nella memoria e rappresentare la mia essenza creativa. Anche ora, lo considero il mio capolavoro, perché racchiude la libertà e l’immaginazione di quel periodo.

Concludendo, quale storia si nasconde dietro al tuo nome d’arte, Weik?

Quando avevo circa dieci anni, ho iniziato a fare graffiti e cercavo un nome che suonasse figo. Ricordo di aver sentito alcune ragazze parlare in inglese e mi sembrava che “Weik” fosse collegato a un re inglese. Nella mia testa, pensavo che significasse “aggressivo”, ma in realtà non c’entrava niente.

“Weik” deriva dalla parola “wicca”, che è una religione basata sulla stregoneria e sulla magia. Significa “plasmare con magia” in inglese antico. Lo scoprii solo in seguito. All’inizio, quello che mi interessava davvero erano le lettere, come potevano essere incastrate insieme. Mi piaceva il modo in cui “weik” avesse molti spigoli, sia quando lo scrivi che quando lo pronunci.

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