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Music

UNCOVERS: CRX Festival

words: Davide Urbani

31.07

UNCOVERS: CRX Festival

UNCOVERS: CRX Festival

Alla sua prima edizione, che si terrà il 14 e 15 agosto, CRX (Collective Resonance Experience), si presenta come un caso significativo all’interno della scena elettronica italiana. Non tanto per l’ennesima proposta musicale indipendente collocata in un contesto “suggestivo”, quanto per la capacità di attivare un dialogo coerente tra suono, territorio e spazio pubblico.

Nato dall’associazione culturale E7X, CRX non si limita a replicare formule già note del clubbing o della sperimentazione sonora, ma tenta piuttosto di articolare un linguaggio critico e situato, capace di rispondere alle complessità culturali e materiali del contesto in cui si inscrive. Le Cave di Fantiano – luogo non neutro, già carico di stratificazioni paesaggistiche, acustiche e simboliche – diventano il punto di partenza per una riflessione più ampia su cosa significhi, oggi, produrre cultura nei margini, evitando tanto l’esotismo quanto la retorica dello “sviluppo locale”.

Il progetto curatoriale si muove lungo una linea di tensione tra estetiche post-club, pratiche interdisciplinari e riflessione territoriale, cercando di coniugare rigore artistico e apertura relazionale. La scelta di coinvolgere realtà come Studio Cromie o il collettivo Post Disaster Rooftops va in questa direzione: non semplici collaborazioni decorative, ma strumenti per ridisegnare il ruolo stesso del festival, inteso non come contenitore, ma come processo.

Questa intervista ai due curatori Gianni Gentile e Alessandro Tozzi restituisce il disegno che sta alla base di CRX, soffermandosi su temi come l’identità sonora del progetto, il rapporto con la dimensione locale, il rischio di riprodurre dinamiche escludenti, e le possibilità di creare un’ecologia culturale sostenibile e autonoma, dentro e contro i limiti imposti dall’industria dell’intrattenimento.

CRX si presenta sin dalla sua prima edizione come un dispositivo culturale con una direzione curatoriale nitida e un’identità sonora riconoscibile, capace di coniugare avanguardia elettronica e sensibilità post-club. Quali istanze – teoriche, politiche o estetiche – hanno orientato la nascita del progetto, e in che modo immaginate che questa traiettoria possa evolvere nel tempo, anche in relazione ai futuri immaginari che desiderate attivare?

AT: Fin dall’inizio, CRX si è posto come un dispositivo libero, energico, con una tensione curatoriale radicale. Lavoriamo dentro e contro l’estetica post-club, cercando uno spazio sonoro che non sia solo innovativo, ma che sprigioni una forza musicale autentica, travolgente, in grado di toccare il corpo prima ancora della mente. Una musica che non ha paura di essere energizzante, fisica, ma che allo stesso tempo non rinuncia a una dimensione di eleganza e raffinatezza, quella che appartiene al linguaggio della ricerca e della sensibilità artistica più profonda.Pur consapevoli di muoverci in un ecosistema in cui molte realtà esplorano linguaggi affini, desideriamo affermare una differenza che passa attraverso la libertà curatoriale e l’attenzione al contesto. La traiettoria futura del festival non potrà che approfondire questo posizionamento: CRX è un work in progress, un organismo che evolve assieme ai desideri e alle urgenze che attraversano la nostra generazione.

GG: CRX è il frutto di un percorso, nato dall’incontro tra me e Alessandro. Prima ci siamo conosciuti tra i banchi dell’università a Milano, poi ci siamo ritrovati lo scorso inverno, decidendo di mettere insieme le nostre esperienze e competenze per dare vita a questo progetto.

Da lì è nato CRX: un festival che immaginiamo come una forma liquida, in continua evoluzione, che ogni anno possa offrire al pubblico qualcosa di unico, pensato per il nostro territorio. Non è un evento spot, ma un progetto a lungo termine, che richiederà mesi—e probabilmente anni—per realizzarsi appieno in tutte le sue sfaccettature.

L’ambizione è che CRX diventi un luogo nel luogo: riconoscibile, accogliente, un contenitore di qualità. Vogliamo che il nostro pubblico lo percepisca come uno spazio sicuro, inclusivo, popolato da una comunità eterogenea e rispettosa.

Collocare un festival di ricerca sonora come CRX nelle Cave di Fantiano, nel cuore della provincia pugliese, significa prendere posizione rispetto alle dinamiche di centralità culturale, ma anche confrontarsi con fenomeni come l’overtourism e la gentrificazione. Quali sono, a vostro avviso, le potenzialità e i rischi insiti nell’attivare contesti territoriali periferici, e quale valore assume oggi, in Italia, l’idea di “fare cultura” nei margini geografici e simbolici?

AT: Le Cave di Fantiano rappresentano per noi un luogo carico di memoria, ma non neutro. Sono periferiche solo rispetto a un’idea centralistica della cultura: in realtà sono già attivate da anni da progettualità locali e nazionali. Non pretendiamo di esserne i custodi o i protagonisti assoluti, ma di dialogare con il territorio con rispetto e responsabilità. Siamo consapevoli delle insidie legate alla spettacolarizzazione dei margini — l’over-tourism, la gentrificazione simbolica — ma crediamo che l’alternativa non sia il disimpegno. Cerchiamo di funzionare come un’alternativa a un turismo di consumo, promuovendo un modello esperienziale e consapevole, dove il suono agisce come forza resistente, non accomodante.

GG: Organizzare un festival come CRX nelle Cave di Fantiano, nel cuore della provincia pugliese, per me è una scelta che ha un valore preciso, anche politico. Ma, più semplicemente, è anche perché siamo di questo territorio e vogliamo continuare a fare in questo territorio.

Le Cave sono un luogo pubblico, e questo ci permette di costruire qualcosa di autentico, accessibile e radicato, lontano dai cliché e dalle dinamiche esclusive che spesso accompagnano la narrazione della Puglia.

La gentrificazione è un fenomeno che ha colpito duramente la nostra generazione, anche in provincia. Qui il mercato immobiliare è totalmente fuori controllo, spesso in mano a investitori stranieri, mentre l’economia è discontinua, fragile e molto concentrata su pochi momenti dell’anno. Ci fa piacere, certo, che la nostra terra sia diventata così attrattiva, ma questo ha reso sempre più difficile organizzare eventi, soprattutto in estate, senza dover affrontare costi insostenibili.

Fare cultura nel Sud Italia significa confrontarsi con mille ostacoli, ma anche riconoscere che esiste uno spazio fertile da difendere e coltivare. Non vogliamo semplicemente portare un evento in un luogo suggestivo: vogliamo lavorare dal basso, coinvolgere chi vive qui, costruire una comunità alternativa al marasma che oggi travolge la Puglia a livello musicale e culturale.

Certo, i rischi ci sono: overtourism, speculazione, disconnessione tra chi organizza e chi abita. Ma se riusciamo a evitare questi errori e a mettere al centro dialogo, ascolto e rispetto, il sud può diventare davvero il cuore pulsante della sperimentazione culturale in Italia.

Le Cave di Fantiano si configurano come un ecosistema complesso: un luogo non neutro, intriso di memoria geologica, tensione paesaggistica e qualità acustiche peculiari. In che modo lo spazio naturale e la sua specifica grammatica hanno influenzato le scelte curatoriali e performative del festival? Quanto è importante per voi che il suono si relazioni con un ambiente capace di amplificarne le risonanze fisiche e simboliche?

AT: Lo spazio naturale delle cave è protagonista tanto quanto gli artisti. Per questo, nei limiti del possibile, cerchiamo di ridurre l’intervento scenografico, lasciando che siano la roccia, i riflessi e la forma del paesaggio a dialogare direttamente con il suono. Il paesaggio detta una grammatica, e la nostra curatela cerca di rispondervi non per contrasto ma per risonanza: la musica è potente, ma sa anche farsi porosa, attenta, in ascolto.
Non vogliamo che il suono si imponga sullo spazio, ma che lo attraversi, lo amplifichi, lo interpreti. In questo senso, le scelte artistiche sono guidate da una tensione fra forza e finezza, energia e precisione — elementi che crediamo possano coesistere in un’esperienza sonora realmente trasformativa.

Uno degli aspetti più significativi di CRX è la sua vocazione a farsi piattaforma multidisciplinare: l’asta performativa delle opere del Maestro Pedone, curata da Studio Cromie e l’intervento site-specific progettato dal collettivo Post Disaster Rooftops ne sono esempi emblematici. In che modo questi elementi concorrono a ridefinire il festival come spazio critico, in cui pratiche artistiche eterogenee possono coesistere, ibridarsi e mettere in discussione la retorica dominante dell’evento culturale?

AT: La dimensione multidisciplinare è per noi una necessità, non un vezzo. Il linguaggio sonoro oggi vive immerso in una pluralità di codici: visivi, spaziali, performativi. Vogliamo che il festival sia un luogo di attraversamenti, dove pratiche diverse si contaminano senza gerarchie. L’intervento site-specific del collettivo Post Disaster Rooftops si colloca perfettamente in questa traiettoria: un’installazione che non è solo funzionale, ma relazionale, capace di attivare le cave come organismo vivo. Allo stesso modo, la collaborazione con Studio Cromie e l’asta performativa del maestro Pedone aprono un campo semantico nuovo, in cui l’arte contemporanea si fa gesto collettivo e interrogazione sulla produzione del valore.

GG: Il primo obiettivo di CRX è collaborare con le persone e i collettivi più avanguardisti del Sud Italia. Negli ultimi anni, quello che ha fatto Angelo Milano con Studio Cromie è, a mio avviso, tra le cose più innovative e coraggiose successe in Italia: un luogo per l’arte senza fronzoli, senza retorica, autentico fino in fondo. Per me è un modello e, prima di tutto, un grande amico.

Con Post Disaster Rooftop ci siamo conosciuti a Milano in occasione di un evento, e da lì è nata l’idea di approfondire possibili collaborazioni. Quello che stanno costruendo a Taranto è un progetto affascinante: una città complessa, difficile, ma anche piena di potenziale. Il modo in cui lavorano sul design e sull’architettura rispecchia esattamente il tipo di approccio che vogliamo portare avanti noi con la musica. È per questo che siamo davvero fieri di collaborare con loro: condividiamo una visione comune, radicata nel territorio ma con lo sguardo rivolto al futuro.

L’intervento installativo che state realizzando in collaborazione con Scaff System sembra proporsi come un dispositivo sensibile, capace di attivare lo spazio non solo in termini funzionali, ma come organismo relazionale e ambientale. In che modo avete affrontato la complessità simbolica e paesaggistica delle Cave di Fantiano, e quale visione di “struttura temporanea” intendete articolare all’interno di un contesto così profondamente connotato?

Post Disaster Rooftops: L’intervento nasce da una riflessione sul potenziale trasformativo delle infrastrutture logistiche: dispositivi pensati per l’efficienza e il controllo che, in contesti situati, possono essere riattivati come strumenti relazionali.All’interno delle Cave di Fantiano, la struttura temporanea non risponde a una funzione tecnica, ma viene attivata come piattaforma per la produzione di prossimità, cura e piacere condiviso. Non è solo supporto fisico, ma condizione spaziale per l’incontro, per una presenza collettiva. La temporaneità è assunta come valore critico: permette di leggere il paesaggio nella sua complessità e di introdurre dispositivi che aprono al desiderio.

La selezione musicale del festival traccia un percorso che si dipana tra estetiche diasporiche, frammentazioni ritmiche, atmosfere rituali e sperimentazioni radicali. Quali principi curatoriali hanno orientato l’articolazione di questo ricco paesaggio sonoro? In particolare, quale ruolo e valore attribuite all’inserimento di sonorità riconducibili alla soundsystem culture all’interno di questo tessuto sonoro, soprattutto in relazione al contesto pugliese in cui il festival si svolge?

AT: Abbiamo cercato di restituire la complessità dell’ascolto contemporaneo, evitando di cristallizzare generi o identità sonore. Jungle, bass music, dub, dancehall… Sono tutte influenze che convivono e si stratificano nel programma di quest’anno, senza la pretesa di definirle in modo definitivo. In questa stratificazione, però, cerchiamo sempre un filo che tenga insieme potenza espressiva e raffinatezza formale. Vogliamo che il suono arrivi con forza, con urgenza, ma anche con una certa grazia, con una sensibilità che non cede alla spettacolarizzazione. In questo senso, il nostro lavoro curatoriale è simile a quello di un artigiano sonoro: limiamo, tagliamo, accostiamo materiali in modo che possano vibrare insieme, in armonia con l’ambiente e con l’ascoltatore.

Nella line-up figurano numerosi artistə attivi nella scena indipendente italiana, accanto a nomi internazionali di rilievo. In un momento storico in cui la dimensione locale rischia spesso di essere ingabbiata in narrazioni autoreferenziali, quanto è centrale per CRX l’idea di attivare processi di scambio, visibilità e circolazione culturale che permettano alle realtà emergenti del territorio di oltrepassare i propri confini consueti?

AT : È uno degli assi portanti del progetto. CRX non è solo un festival: è un dispositivo di comunità. Vogliamo che l’esperienza del festival generi connessioni reali, scambi artistici e relazioni durature. Non ci interessa costruire una vetrina, ma attivare processi. Il nostro desiderio è che le realtà emergenti con cui collaboriamo possano trovare spazi di visibilità nuovi, non solo nel contesto locale ma anche oltre i confini nazionali. Che si tratti di showcase, progetti editoriali o scambi internazionali, vogliamo che CRX possa essere una piattaforma fertile, dove il valore si misura nella capacità di generare relazioni.

GG: Da sempre, anche nelle mie esperienze passate, l’obiettivo di un festival è duplice: ospitare artisti internazionali e allo stesso tempo dare spazio ai nostri artisti, amici e resident. Crediamo sia fondamentale creare una sinergia tra queste due dimensioni, affinché un festival non sia solo consumo, ma anche piattaforma di crescita e scambio. Vogliamo che CRX diventi un luogo dove la scena italiana, anche quella più underground, possa proiettarsi verso l’estero. Il primo passo è portare artisti internazionali qui in Puglia; il successivo è aprire un dialogo con realtà estere per promuovere il “nostro” sound, creando connessioni reali e durature.

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