IN CONVERSATION WITH: TLKR | t-mag

Stories
About
Store
Contact

Newsletter
Stockists
Search
Newsstands

Language:

English |

Independent-tastemaker magazine
Old-fashioned paper, new media platform

Follow us

ig
sp
tt

©2025 All Rights Reserved

We use cookies to ensure that we give you the best experience on our website. If you continue to use this site we will assume that you are happy with it.Ok

Music

IN CONVERSATION WITH: TLKR

16.04

IN CONVERSATION WITH: TLKR

IN CONVERSATION WITH: TLKR

La fine di un’epoca, l’inizio di un percorso interiore. Alessandro Parlatore, conosciuto come metà del duo Marvin & Guy, presenta “Process” il suo primo album solista con il nuovo moniker TLKR: un’opera intensa, personale, nata da uno sradicamento e da una necessità profonda di trasformazione. Tra ambient destrutturato, ritmi emotivi e sample ricercati, “Process” è il racconto sonoro di un momento sospeso, fatto di angoscia, intuizione e rinascita. Ma è anche uno specchio della società contemporanea, dove la rabbia si trasforma in creatività e l’identità si ridefinisce nel suono.

Hai descritto Process come un atto viscerale, nato da un’urgenza più emotiva che estetica. Qual è stato il momento – o l’insieme di circostanze – che ha acceso la scintilla di questo disco?

L’idea è nata subito dopo la seconda ondata del Covid, nel 2022, un periodo segnato da eventi profondamente trasformativi nella mia vita personale. In quel periodo, avvertivo una necessità fisica di liberare un’angoscia che mi gravava internamente. Per me, la musica è un linguaggio primordiale, un’esperienza viscerale. Quel momento l’ho vissuto come se, letteralmente, infilassi la mano nella mia mente per riversare ogni emozione e pensiero su una tela sonora. È stato un atto di liberazione, una forma di terapia. È in quel contesto che ho incontrato Michele Di Martino, un musicista romano con una passione ossessiva per l’ambient. La nostra connessione è stata immediata e profonda, tanto sul piano musicale quanto umano, offrendomi un sostegno che è andato ben oltre la musica stessa.

Con questo disco entri per la prima volta in uno spazio completamente tuo, senza mediazioni né compromessi. È un debutto che segna uno scarto netto rispetto al passato condiviso con Marvin & Guy. In cosa si differenzia, a livello sonoro ed emotivo, questo progetto rispetto a quel percorso a due?

Process rappresenta qualcosa di completamente diverso. Sebbene con Marvin & Guy esplorassimo melodie malinconiche, queste erano comunque inserite in un contesto più orientato alla funzionalità del dancefloor. Qui, invece, c’è una dimensione di profonda introspezione. Il tutto inizia da texture grigie, ambientali, che gradualmente si aprono a sprazzi di luce. Il processo creativo è stato più istintivo e personale. Ogni traccia si configura come una manifestazione tangibile di uno stato emotivo, una narrazione che prende forma attraverso la musica. È un disco che nasce da me, racconta la mia storia e si conclude con la mia esperienza. Senza compromessi.

Ogni progetto artistico ha un ciclo vitale, e a volte il difficile non è iniziare, ma capire quando finire. Quando hai capito che Marvin & Guy stava arrivando al capolinea? È stato un momento netto o un processo graduale di disallineamento?

C’è stato un momento molto definito, anche se non immediato. Dopo anni intensi, ho preso coscienza che quel progetto non aveva più la forza vitale di una volta. La differenza d’età tra me e Marcello – undici anni – inizialmente rappresentava una risorsa, una diversità creativa che ci arricchiva. Ma con il passare del tempo, quella stessa disparità è diventata uno squilibrio. Quando ho iniziato, a 23 anni, lui era già molto più maturo. E, col trascorrere degli anni, il mio cambiamento personale è stato molto più radicale. Mi sono trovato a confrontarmi con una crescente incompatibilità nella visione, nell’energia e nell’approccio. Eppure, essendo una persona particolarmente sensibile, non riuscivo a chiudere. Rimanere troppo a lungo in una situazione che ti consuma lascia il segno. E l’ho pagato sulla mia salute mentale.

Staccarsi da qualcosa che ti ha definito significa anche rinunciare a una parte della propria identità. Quanto ti è costato, emotivamente e psicologicamente, chiudere un’esperienza così formativa come Marvin & Guy?

Tantissimo. Marvin & Guy mi ha dato tutto: mi ha aperto porte, mi ha fatto viaggiare, mi ha permesso di conoscere il mondo e di cambiare orizzonte. Prima di quel progetto, non avevo mai nemmeno preso un aereo per un viaggio personale perchè non potevo permettermelo. Vivevo in provincia, facevo lavori saltuari, non avevo prospettive. E poi, all’improvviso, l’Europa, il Mondo, i club, i festival. È stato un colpo positivo, una vera e propria rivoluzione. Ma allo stesso tempo, diventava sempre più difficile ignorare il peso di un’identità che non sentivo più mia. E non riuscivo a lasciar andare, anche se nel profondo sapevo che era la cosa giusta da fare.

Viaggiare è spesso un’esperienza formativa, ma per un artista può diventare anche un esercizio di dislocazione identitaria. Che ruolo ha avuto il movimento, geografico e interiore, nel tuo processo creativo?

Fondamentale. Viaggiare ti espone a diversità culturali, a modi diversi di vivere la musica, il tempo, il corpo. Se vieni da una città piccola – come è successo a me – le prime volte che ti trovi a Berlino, New York, Tokyo… cambia tutto. Non solo la musica: cambia la tua percezione di te. Ma non è solo romanticismo: viaggiare tanto, farlo per lavoro, è anche estenuante. Devi avere il giusto mindset. A volte assorbi tantissimo ma non riesci a produrre nulla. Io sono uno che ha bisogno di ordine mentale, e viaggiare può disordinarti. Alla lunga ho capito che alternare fasi in studio a fasi di assorbimento era il mio equilibrio ideale.

Il suono, in Process, non sembra cercare una forma quanto un senso: si costruisce per stratificazione, come un processo psichico. Come si è evoluta la struttura sonora dell’album durante la lavorazione?

Abbiamo iniziato componendo melodie, pad, ambientazioni sonore. Se togli tutta la parte delle batterie, Process potrebbe essere un disco ambient. E in parte lo è. Gli elementi ritmici sono arrivati dopo, quasi come un gesto di sollevamento, un modo per far emergere le tracce da una condizione interiore densa, pesante. Le drums sono entrate per ultime, come una forma di respiro. Alcune sono leggere, altre più tese, quasi nervose. È come se stessi cercando un equilibrio tra buio e sollievo, tra introspezione e apertura.

“Furious” è un titolo che rompe con l’immaginario spesso rarefatto dell’elettronica ambient. Da dove nasce questa scelta linguistica così netta, quasi brutale?

Molto semplicemente: ero arrabbiato. L’ho composta in un periodo difficile, e quel nome è venuto fuori alla fine, quando l’ho chiusa. Volevo rompere la consueta narrativa poetica che spesso accompagna i titoli. “Furious” era genuino, diretto, istintivo. L’ho scelto anche per ribellarmi alla mia tendenza al controllo. Per me, è stato come spezzare una catena.

Il sampling, in questo progetto, non è solo tecnica: è memoria culturale, archivio emotivo. Come hai lavorato con i campioni e quale valore simbolico gli attribuisci oggi?

L’ho riscoperto. Nei primi dischi con Marvin & Guy utilizzavamo moltissimi sample, poi ho smesso. Ma con questo progetto ho voluto tornarci, perché il sampling è un’arte, tanto quanto la sintesi. Non sono un musicista classico, quindi campionare è stato anche un modo per esprimermi. Il brano *flowers*, per esempio, nasce da un campione preso da *Fiorucci Made Me Hardcore*, un video del 1999 dell’artista britannico Mark Leckey che mostra e parla della scena dance underground britannica negli anni 70, 80 e 90. Si trova su YouTube. Il nome del brano è anche un gioco linguistico: *Fiorucci* → *Flowers*.

In Process, l’estetica visiva non è un corredo accessorio ma parte integrante del racconto. Come hai costruito la dimensione visiva del progetto e quanto pesa, per te, l’immagine nel definire un linguaggio sonoro?

Tantissimo. Le foto dell’album sono state scattate da un mio carissimo amico, fotografo di moda. Inizialmente non volevo apparire in copertina, ma poi ho cambiato idea: era il mio primo disco solista, ci stava. L’idea grafica è nata quasi per caso, ma poi l’abbiamo sviluppata con coerenza. Ogni singolo ha una copertina con un “ago” che si muove fino a formare un cerchio con l’uscita dell’album. È semplice, ma ha un senso profondo. L’estetica per me è fondamentale, tanto quanto il suono.

Moda e musica, nella tua traiettoria, si sono intrecciate come due linguaggi paralleli, ma mai subordinati. In che modo il tuo rapporto con la moda ha influenzato – o rispecchiato – la tua evoluzione artistica?

Enorme. A 19 anni facevamo feste illegali, poi sono entrato nel mondo della moda, un po’ da intruso, un po’ da punk. Suonavo agli eventi di Marcelo Burlon, curavo la selezione musicale per le sfilate. Oggi porto avanti un progetto che si chiama *Domestico*, dove selezioniamo abiti second hand maschili di qualità, senza feticizzare il brand. La moda per me è sempre stata parallela alla musica, una seconda forma di linguaggio visivo e identitario.

In un’epoca di smaterializzazione, pubblicare un vinile è anche un atto simbolico. Perché era importante per te che Process esistesse anche in una forma fisica?

Sì. Non sono un feticista del vinile, ma credo che un disco, per essere davvero completo, debba esistere anche fisicamente. È come un quadro: non basta il bozzetto. Anche solo 50 copie, ma devono esserci. Un file può perdersi, un vinile resta. Per me ha un valore concreto, tattile, simbolico. E ho voluto fortemente che anche *TLKR* uscisse in quel formato.

Ogni disco porta con sé anche un luogo ideale, uno spazio mentale o fisico dove può risuonare in modo pieno. Dove immagini che verrà ascoltato? Hai in mente ambienti precisi, situazioni intime, o è un disco che vuole spostarsi e adattarsi a diversi contesti d’ascolto?

Non in un club. Non ha quella densità. È pensato per spazi aperti, naturali, per essere ascoltato con un sound system potente o in solitudine con le cuffie. Me lo immagino su un grande palco all’aperto, con persone che chiudono gli occhi. Non è una musica da pogo, è una musica che si insinua, che ti avvolge. Un’esperienza.

Share

FB
X
IG

Related
Articles

Broken Tales: Cold Still | IN CONVERSATION WITH: Domenico Romeo

Broken Tales: Cold Still | IN CONVERSATION WITH: Domenico Romeo

Roberta Gigliotti

18.04.25

Swinging Flavors #14 – DJ Sofa & Siu Mata: un nuovo capitolo tra nostalgia rave e visione futura

Swinging Flavors #14 – DJ Sofa & Siu Mata: un nuovo capitolo tra nostalgia rave e visione futura

t-mag

14.04.25

Lo specchio si è rotto. “Adolescence” ci spinge dall’altra parte

Lo specchio si è rotto. “Adolescence” ci spinge dall’altra parte

Conzuelo Fogante

12.04.25

Email

Exploring the pulse of
culture since 2019.

where electronic music,
fashion and art collide.

©2025 t-mag

ig
sp
TT

Follow us

We use cookies to ensure that we give you the best experience on our website. If you continue to use this site we will assume that you are happy with it.Ok