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Music

IN FOCUS: Rewire 25 | Alvin Curran

words: Mila Azimonti

05.06

IN FOCUS: Rewire 25 | Alvin Curran

IN FOCUS: Rewire 25 | Alvin Curran

Appunti improvvisati di un utopista riluttante.

Compositore d’avanguardia dall’indole democratica, fautore di concerti ambientali, inventore di strumenti improvvisati, raccoglitore instancabile di suoni — Alvin Curran è la figura attorno a cui ruota quest’edizione di Rewire. Americano trapiantato in Italia da oltre 60 anni, “dov’è casa?” gli chiedo; lui ride: “Perché mi fai domande così complicate, abbiamo appena iniziato!” Essere stranieri significa vivere in un’intercapedine. Porta con sé ostacoli e frizioni — burocrazia, smarrimento, nostalgia — ma anche un vuoto fertile. Senza un copione culturale, ci si riscrive nelle pieghe: tra una lingua e l’altra, tra gesti da imitare e interiorizzare, tra aspettative che non combaciano. Si è costretti a improvvisare. A disimparare. A fare meno affidamento su significati ereditati, e più sulla presenza, sull’attenzione. Alcuni istinti si affinano, altri si smussano. Ci si sintonizza al mondo in modo diverso, si intercettano altre frequenze, altre sonorità. A un certo punto, la domanda non è più “da dove vieni?”, ma “cosa sei, ora che non appartieni del tutto a nessun luogo?”. A parlare con Alvin, si percepisce la consistenza di questo spazio intermedio. “Ogni giorno mi sveglio americano ed esco in Italia. Il cappuccino al bar sotto casa, la lingua delle strade, le code per il permesso di soggiorno. Vivo contemporaneamente in entrambe le dimensioni, a seconda del momento, della situazione.”

Ph. Salvatore Delle Femmine

Nato a Providence, con alle spalle studi di composizione a Yale, Curran atterra a Roma nel 1964 — e non se ne andrà più. Com’era l’Italia degli anni ’60 vista da uno straniero? Anzi, attraverso gli occhi di un “American Yid” con credenziali nell’avanguardia, cresciuto all’ombra dell’Espressionismo Astratto newyorkese e connesso al minimalismo downtown? (Domanda obbligata: noi italiani, del resto, abbiamo un’ossessione testarda per come ci vedono gli altri. Per capire chi siamo, o chi pensiamo di essere. Lo sguardo dell’altro ci inventa, forse perché “l’Italia” spesso funziona più come finzione che come realtà). Curran, come molti, non è immune al richiamo dell’Italofilia. “Noi americani eravamo attratti dal fascino antico dell’Italia: la mentalità agricola, tradizionale, l’arte del baratto. Ricordo un concerto che organizzai vicino Bari; al termine, un signore piuttosto anziano si sedette accanto a me e mi disse: ‘Io so che questa era musica.’ Mi colpì come una delle cose più profonde che mi siano mai state dette. In quelle parole c’era la saggezza intuitiva dell’Italia contadina — un ponte tra l’arcaico e il contemporaneo.”

Accanto all’immaginario romantico, esistono anche motivi pratici. In quegli anni, paesi come Francia, Germania e Italia offrono un sostegno concreto alla produzione artistica: festival come Donaueschingen, Darmstadt, Holland Festival, Festival d’Automne; reti radiofoniche pubbliche; sistemi di commissione e programmi di residenza. È dentro questa rete che molti artisti americani — tra cui Philip Glass, Steve Reich, Charlemagne Palestine — trovano le condizioni per lavorare e vivere in Europa.

L’Italia si rivela un terreno particolarmente favorevole all’improvvisazione. La sinistra politica e culturale — con il PCI in primo piano — promuove l’avanguardia anche fuori dai circuiti elitari: si organizzano concerti nelle fabbriche, si aprono spazi al free jazz, si accolgono musicisti come Anthony Braxton, Leo Smith, George Lewis e i membri dell’AACM. L’idea che l’arte debba essere per tutti si accorda con l’etica del ’68, in un momento in cui il sostegno pubblico non è ancora governato dalle logiche di mercato. Il Festival Nuova Consonanza, nato nei primi anni ’60 su impulso di Franco Evangelisti, è uno dei nodi centrali di questo ecosistema — così come il collettivo che forma insieme a Ennio Morricone: il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, il primo ensemble europeo di compositori sperimentali. La loro ricerca spinge la musica fuori dalla forma chiusa della partitura, verso espressioni aperte e improvvisative.

Ph. Salvatore Delle Femmine

Tra il 1965 e il 1966, un gruppo di americani — tra cui Alvin Curran, Alan Bryant, Jon Phetteplace, Carol Plantamura, Frederic Rzewski, Richard Teitelbaum, Ivan Vandor — fonda a Roma Musica Elettronica Viva (MEV). Quasi tutti provengono da accademie prestigiose, ma si considerano esiliati accademici, uniti dal desiderio di esplorare nuove forme di sperimentazione sonora. “Giovani, forse ingenui, volevamo spogliarci di tutto — liberarci delle vesti del passato”, racconta Curran. “Abbiamo dovuto toglierci le giacche, la nostra storia, il sapere. E buttarli nel Tevere.” Il punto di riferimento non erano i maestri: era il ’68. Attraverso le sue “sound pool”, MEV cercava la rottura. “Volevamo fare la rivoluzione. Invitavamo chiunque a partecipare — donne, bambini, cani. Creare caos, politico e sociale, per esplorare la possibilità che chiunque potesse fare musica. Vuoi battere su una sedia o soffiare in una bottiglia? Va bene. È musica.”

MEV non nasce da un manifesto né da un metodo. Certo, le tecniche impiegate affondano in un terreno già dissodato — Cage, Tudor, Mumma — ma rispetto al rigore teorico e sistemico di quel cerchio, MEV risponde a un impulso diverso: fare musica a partire dall’adesso, da ciò che ognuno porta nella stanza: elettronica mezza rotta, voci, radio, pezzi di metallo. Vivere il momento, anche dentro l’incertezza e la precarietà. Accettare il rischio: fidarsi dell’istante, degli altri, del non sapere dove si sta andando.

In una pratica così, sono tutti responsabili, ma nessuno comanda. L’improvvisazione diventa un modo di stare al mondo — esteticamente, politicamente, collettivamente. “Volevamo creare una musica che non appartenesse a nessuno. Nessun autore, nessun leader, nessuna ideologia. Era musica che proveniva dal nulla.” Uno sforzo collettivo senza un’origine precisa né un oggetto finale. “Stavamo mettendo alla prova cosa significa creare qualcosa che non può essere venduto, né ripetuto, né rivendicato”, dice Alvin. “E forse questo è già abbastanza politico.” MEV antepone il processo al prodotto, il disimparare al padroneggiare.

Ph. Alex Heuvink

Ma l’improvvisazione non è solo negazione. Non si tratta di distruggere le strutture per inseguire un’idea vaga di libertà. Per suonare senza appigli servono disciplina, ascolto, la capacità di sospendere il proprio ego, una musicalità più ampia, capace di attraversare il bello e il brutto senza separarli. Fare musica in tempo reale è difficile, ma anche profondamente appagante. Alvin parla di un momento di fusione, in cui la musica sembra “suonarsi da sola”, dove non distingui più tra ciò che fai tu e ciò che fanno gli altri, tra ciò che viene da dentro e ciò che arriva da fuori. “Improvvisare è davvero l’arte di diventare suono. E quel momento — credimi, chiedilo a qualunque musicista improvvisatore — è potente. Ci si può sballare con qualsiasi tipo di musica: Beethoven, Mozart, Bach, Count Basie, Ellington, Sarah Vaughan. Ma quando stai facendo musica spontanea, musica che non è ancora stata sentita né composta, quel processo… be’, moltiplica quella sensazione per dieci, o cento. Quella sensazione di — come si dice… illuminazione? È, senza dubbio, un’esperienza spirituale.”

Non perdersi, ma essere così intensamente connessi. È il paradosso dell’improvvisazione: il suo essere una pratica insieme individuale — trovare e far sentire la propria voce — e collettiva, fatta di ascolto, di porosità. È la possibilità di un’autorialità condivisa senza dissoluzione individuale.

Ph. Pieter Kers

La stessa tensione raffiora anche nell’idea di eredità musicale. Quando gli chiedo se ci pensa, Alvin risponde: “Per un artista, il concetto di eredità è un problema. Alcuni credono che il proprio lavoro debba durare in eterno. Ma non è sempre stato così. Ai tempi di Monteverdi, o di Bach, i compositori erano artigiani. Non pensavano alla posterità: cercavano solo di sopravvivere. Mozart aveva una famiglia numerosa da mantenere. Schubert beveva e scriveva, forse era gay, sicuramente tormentato. Beethoven — un relitto totale. Il mito del genio è venuto dopo.” È solo tra fine Settecento e inizio Ottocento che il compositore diventa figura pubblica, merce di scambio. Da lì arrivano reputazione, competizione, l’idea dell’artista che sopravvive al proprio tempo.

“Io mi considero ancora un compositore sperimentale. E sperimentale vuol dire che non so cosa succederà. Posso intuire un suono, una direzione — ma mai con certezza. Un concerto come quello di ieri sera [Maritime Rites]? Non avevo la minima idea di cosa sarebbe successo. Ed è proprio questo che cerco: l’imprevedibilità. Quella è la mia musica.”

Con il digitale, però, la questione dell’eredità cambia forma. “Le mie composizioni si trovano ovunque. Su piattaforme di cui non conosco nemmeno il nome. Non ci guadagno nulla. È fondamentalmente rubata. Ma esiste. La perpetuità non è più un’utopia: è automatica. Sei già eterno, che tu lo voglia o no.”

Ph. Pieter Kers

E anche la musica stessa, nel passaggio al digitale, ha cambiato natura. Un tempo era un fenomeno prevalentemente locale: “Se eri di Milano, conoscevi le canzoni della tua zona, qualche canto che tua nonna intonava. Tendenzialmente, non sapevi cosa cantavano in Nord Africa. A volte neppure a Napoli.” Ora, invece, la musica si è trasformata in un campo continuo, senza confini: accessibile ovunque, da chiunque, in ogni momento. Una connessione costante, ma anche una saturazione. Dove tutto circola, tutto si mischia, diventa più difficile inventare qualcosa che non sia già stato ascoltato altrove.

E allora, cosa resta della sperimentazione?

Ph. Maurice Haak

La musica è un riflesso della società. C’è stata una musica rivoluzionaria per tempi rivoluzionari, nata dagli incroci tra free jazz, indeterminazione, strutturalismo, controculture e movimenti di giustizia sociale. Quella spinta, dice Alvin, sembra in parte essersi cristallizzata. Molte pratiche improvvisative si muovono in un vicolo cieco — atonalismi non più provocatori, collage svuotati, virtuosismi autoreferenziali. Le spinte più vitali si sono spostate altrove: nell’hip-hop, nella noise, nell’elettronica, che hanno saputo assorbire quell’impulso sperimentale senza renderlo formula.

Ph. Salvatore Dell Femmine

“A volte mi viene da pensare che non ci siano più esperimenti da fare. Ma poi mi ricredo. Adesso, per esempio, sto scrivendo un brano per pianoforte. Cerco di scriverlo come se fosse un bambino a suonarlo. È molto difficile scrivere musica così. Ma sto ancora cercando quel gesto infantile, inculturato, fuori dal tempo. Uno spazio di libertà pura. Ho 86 anni, quasi 87. Eppure lo cerco ancora dentro di me.”

“Nonostante tutto, resti un utopista.”

“Assolutamente. Grazie per avermelo ricordato. È il lascito della mia generazione.”

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