Alla sorgente del suono con Nyege Nyege Festival
Carolina Camurati
04.01.25
Art
Transfemminismo for dummies. Di cosa parliamo quando parliamo di violenza di genere
words: Scilla Dylan
23.05
“Siamo state amate e odiate, adorate e rinnegate, baciate e uccise, solo perché donne”
Alda Merini
Il 17 dicembre 1966, il tribunale di Palermo condannò Filippo Melodia per il sequestro e lo stupro di Franca Viola, rapita per non averlo voluto sposare. Fu il primo passo mosso in Italia da un tribunale per il riconoscimento della violenza di genere e del diritto delle donne di ribellarsi ad essa. Oggi, 58 anni dopo, i passi avanti compiuti vengono quotidianamente messi in discussione da un sistema sociale patriarcale che, più o meno nascosto, non solo è sopravvissuto, ma ha proliferato e torna violentemente allo scoperto ogni giorno di più.
Da alcuni mesi a questa parte se ne è discusso molto, ma per parlare di violenza di genere bisogna innanzitutto definire i termini in cui ne parliamo. In primis, parliamo di violenza di genere o ancora meglio di violenza patriarcale (e non di violenza maschile sulle donne), perché ci riferiamo a quegli atti mirati alla stigmatizzazione, al controllo o all’eliminazione di una persona solo perché appartenente a una categoria oppressa, ed è un meccanismo applicato tanto contro le donne quanto contro tutte le persone razzializzate, disabili, sex worker, appartenenti alla comunità LGBTQIA+ ecc. Questo processo rientra in un metodo sistematico di oppressione per cui un intero gruppo di persone viene minacciato e silenziato per mezzo della violenza o della paura che essa instaura.
Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale di “Non Una di Meno” sui femminicidi, trans*cidi, lesbicidi, puttan*cidi e disabilicidi, dal primo gennaio all’otto maggio di quest’anno ci sono stati, in Italia, 28 femminicidi di matrice patriarcale accertati. Questo dato, che rispecchia l’ormai famigerato numero di un femminicidio ogni tre giorni, è estremamente sottostimato, dato che riguarda solo i femminicidi accertati come tali, senza comprendere quelli che potrebbero rientrare nella categoria, ma dei quali non è ancora stata determinata la natura (3), e tutte le aggressioni che non hanno determinato il decesso della vittima. In tutti i casi, l’aggressore è un familiare, nella maggior parte dei casi il partner, in altri il padre, il figlio o un amico. Secondo i dati ISTAT sui femminicidi, il 15% delle vittime aveva già denunciato l’aggressore per lo stesso reato o per reati di minore entità, denuncia che non ha sortito alcun effetto o che comunque non ha scongiurato il rischio di nuove aggressioni. Questi dati si inseriscono in un contesto di normalizzazione della cultura dello stupro e di morboso interesse nelle dinamiche dei fatti che non porta, nella maggior parte dei casi, a una vera attivazione politica e istituzionale che possa far fronte a questa emergenza, ma solo ed esclusivamente alla vittimizzazione secondaria di chi ha subito la violenza, che viene analizzat* e mess* alla pubblica gogna per dettagli insignificanti ai fini dell’analisi dell’evento, come i suoi atteggiamenti, il suo lavoro o gli abiti che indossava. Questi dettagli sono così spesso analizzati dai media da passare quasi inosservati agli occhi dei più e, senza un minimo di allenamento a notare le storture della narrazione mainstream, ci sembra normale disquisire sull’istigazione o meno che l’abuser ha avuto per compiere la sua violenza, dimenticando che nessuna circostanza può attenuare la gravità di un delitto di matrice patriarcale. Facciamo un esempio: Carol Maltesi viene uccisa l’11 gennaio 2022 a 29 anni dal suo partner e, nella narrazione dei media, ricalca quella del suo assassino, puntando l’attenzione su un unico dettaglio che esula dal delitto in sé: il fatto che la vittima realizzasse contenuti per OnlyFans. Gran parte dell’opinione pubblica, sia oggi, a seguito della conclusione del processo, sia all’epoca dei fatti, giustifica parzialmente l’uomo, definendo comprensibile la gelosia che aveva portato al femminicidio. Se analizziamo razionalmente la situazione però, in questo atroce delitto patriarcale abbiamo solo una donna maggiorenne che, nel pieno dei suoi diritti, vendeva prodotti, utilizzando la propria immagine, ai suoi followers. Non c’è, in questo, nulla che possa compromettere la libertà e il benessere del suo assassino e perciò non esiste nessuna attenuante che possa ridurre la gravità delle sue azioni. Quest’uomo, come purtroppo molti altri, ha semplicemente considerato una donna come sua proprietà e l’ha punita per aver dimostrato di essere libera.
Al fine di mantenere lo status quo e il controllo sulla popolazione, il patriarcato si basa sulla definizione di caratteristiche rigide richieste alle persone per essere “degne” di assicurarsi un posto privilegiato, in particolare dando maggior potere a chi più rispecchia lo stereotipo del maschio bianco cisgender abile ed eterosessuale. L’essere non conforme, come donna e come persona marginalizzata, è da sempre oggetto di discussione pubblica, quasi come se il corpo e le scelte non appartenessero a quella persona, ma alla cosa pubblica. In questo modo si incrementa la marginalizzazione di chiunque non rientri in quegli stereotipi, creando una forte pressione sociale su tutti i corpi non conformi per identità di genere, peso, disabilità o scelte di autodeterminazione come, tra le più ostracizzate, la vita sessuale e riproduttiva. Lo stereotipo della donna la vuole non solo con un corpo conforme ai canoni estetici, ma anche con una sessualità rigidamente definita (attiva sì, ma non troppo e comunque meno dell’uomo), e possibilmente finalizzata all’essere madre; quindi la sua autodeterminazione sessuale e riproduttiva rappresenta di per sé una ribellione a quei ranghi. Ad esempio, una donna che decida di non avere figli e perciò scelga di abortire, è vista come qualcosa di sbagliato e innaturale, come anche una donna che viva liberamente la propria sessualità e la propria immagine corporea, senza asservirla alle richieste patriarcali. In questi casi il pregiudizio sociale è tanto forte che la donna verrebbe vista come inaffidabile, promiscua o putt*ana. Le persone vengono quindi descritte e valutate in base a rigide suddivisioni binarie di genere, secondo le quali le donne, ad esempio, sarebbero remissive, gentili, fedeli, pudiche, con il desiderio principale di essere madri e mogli (ovviamente in coppie eterosessuali e cisgender) e soprattutto sottomesse, mentre per gli uomini è considerata normale e, anzi, è ben vista, una certa dose di violenza – giustificata con la storiella dell’uomo forte come esempio positivo. Qualsiasi aspetto che ribalti la situazione mettendo la donna (o la persona razzializzata, o LGBTQIA+ ecc.) in primo piano, come la denuncia di una violenza o semplicemente il fatto di averla subita, crea una falla nel sistema perché incrina la validità degli stereotipi di genere. La soluzione più semplice è quindi minare l’affidabilità della vittima, come nella miglior tradizione dei tribunali inquisitori. La cosa inquietante è che spesso questo approccio è talmente interiorizzato dalle persone da non essere minimamente messo in discussione e siamo purtroppo abituat* a testate giornalistiche o a servizi televisivi che pongono l’accento sugli atteggiamenti della vittima, spesso descritti come “provocanti”, invece che sulla brutalità dell’aggressore.
In questo c’è decisamente poca differenza tra il modo che c’è stato di parlare dello stupro di Palermo lo scorso anno, ad esempio, e quello di 50 anni fa, in merito al massacro del Circeo. È, tra l’altro, un meccanismo ubiquitario sia in senso geografico che sociale, e lo ritroviamo tanto nel contesto giornalistico quanto in quello giuridico. In un numero pressoché infinito di casi, la vittima, pur denunciando un fatto violento, non viene creduta dalle autorità o il fatto viene sminuito e, spesso, a questo si aggiunge una colpevolizzazione mediatica, come nel caso delle denunce di sessismo nella politica, nei salotti pubblici o nelle aziende, in cui non solo il fatto viene minimizzato e non ci sono conseguenze significative salvo qualche cambio di poltrona, ma in molti casi si è parlato delle vittime come di persone che comunque “avevano utilità” dall’avere rapporti intimi con capi, colleghi o altre figure professionali a loro superiori di grado, come avanzamenti di carriera. Si tratta esattamente dello stesso discorso fatto in passato riguardo alcune vittime all’interno del movimento “Me Too”.
Per quanto ad alcuni (e il maschile sovraesteso in questo caso è voluto) possano sembrare situazioni differenti, si innesca esattamente lo stesso meccanismo del femminicidio, seppur con conseguenze meno evidenti, nei casi di violenza sessuale o di molestie considerate “minori”, a partire dalla base della cosiddetta “piramide della violenza” che inizia dal catcalling o dalle molestie sporadiche sino ad arrivare, in cima alla piramide, all’uccisione della vittima. L’idea che c’è alla base di queste azioni, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è la cultura patriarcale dello stupro, per cui la donna, come anche tutte le altre soggettività marginalizzate, è vista come oggetto, spesso del desiderio, sempre ad uso e consumo maschile. Quando viene fatto un apprezzamento estetico su una donna, ad esempio, non stiamo tenendo in considerazione il suo desiderio di riceverlo. E non parliamo, ovviamente, di un complimento fatto da una persona amica con il solo intento di migliorare l’autostima di chi lo riceve, ma di un complimento fatto da persone che non hanno, in quel momento o mai, un legame emotivo con quella persona e che hanno come unico scopo quello predatorio: “per me tu sei bell* e te lo faccio notare che tu lo voglia o no, fregandomene del fatto che possa metterti in imbarazzo e possa non farti sentire al sicuro, per il solo fatto che posso farlo e che questo mi dà un potere su di te”.
Not all catcallers are femicides, but most femicides are catcallers.
È emblematico il recente caso del sondaggio dell’orso o dell’uomo. Riassumo i fatti per chi fosse vissut* su Marte in queste ultime settimane: è diventato virale sui social un quesito indirizzato alle donne (ma assolutamente valido anche per altre persone marginalizzate) in cui si chiedeva se, attraversando un bosco da sol*, avrebbero preferito sapere che nei pressi si aggirava un orso oppure un uomo sconosciuto. La maggioranza delle risposte è stata a favore dell’orso. Per quanto superficialmente ad alcun* possa sembrare una scelta bizzarra, le motivazioni sono molte e più che valide. L’orso infatti è un animale che, per quanto sia onnivoro, al contrario dell’uomo non aggredisce per puro divertimento, ma solo per fame o per difesa, per cui diventerebbe un pericolo solo nel caso in cui si attraversasse il suo terreno in un momento di caccia o se si mettesse involontariamente in pericolo l’orso stesso. Inoltre, qualora ci fosse un’aggressione, l’orso non torturerebbe le sue vittime, non compirebbe violenza sessuale, non proverebbe divertimento nel tormentare le vittime, né farebbe loro stalking, bullismo o diffamazione, nessun* si sognerebbe di chiedersi se l’orso è stato provocato da atteggiamenti o vestiti o incolperebbe di ciò la vittima. Per ultimo, ma forse è la più atroce delle motivazioni, non si partirebbe dal presupposto che l’orso voglia attaccare, mentre abbiamo perfettamente imparato nel corso degli anni che da un uomo sconosciuto possiamo, se non dobbiamo, aspettarcelo. Questo tema sui social ha sollevato un vespaio di uomini che non accettano di essere, come confermano le statistiche, il primo e più reale pericolo per le donne e le persone marginalizzate nella nostra società (tanto per capirci, il numero totale di aggressioni da parte di un orso negli ultimi anni in Italia è di 8 in 15 anni, non tutte mortali, in pratica, è più facile essere uccis* da un’ape e ancora più facile essere uccis* da un uomo). Il punto su cui però questo dibattito social glissa è che la maggior parte delle vittime di violenza patriarcale non vedono come abuser uno sconosciuto in un bosco (evenienza spaventosa, ma alla fin fine piuttosto improbabile), ma un loro conoscente, amico, familiare o partner. La maggior parte delle violenze avviene in casa, lontano da occhi indiscreti e nel silenzio del terrore, che spesso impedisce alle vittime di denunciare. Secondo le stime ISTAT, infatti, il 32% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita, ma solo il 24% di esse ha sporto denuncia e molte l’hanno poi ritirata in seguito a pressioni esercitate dal parter, dalla famiglia o dalle autorità stesse. Per non parlare poi della violenza psicologica o economica, attuata da una persona in stretto rapporto con la vittima, che colpisce nel corso della vita il 46% delle donne. Questi numeri non tengono conto dell’enorme sommerso di violenze mai dichiarate, nemmeno nei sondaggi, e di quelle subite da persone marginalizzate come persone transgender*, sex worker, persone razzializzate, migranti ecc, che in quei sondaggi spesso non sono neanche contemplat*. Viene da chiedersi il perché di questa discrepanza così grande tra i numeri della violenza e quelli delle denunce, ma la risposta è molto semplice: le conseguenze psicologiche e sociali della denuncia, soprattutto in alcuni contesti, sono devastanti, mentre l’efficacia delle pene e delle precauzioni prese dalle autorità sono inadeguate.
La donna è spesso e volentieri scoraggiata dal denunciare dalla sua stessa famiglia o dalle autorità per non “perdere la faccia” e quando lo fa non è detto che questo vada a suo favore, sia per la gogna mediatica alla quale viene sottoposta, sia perché spesso non vengono prese precauzioni adeguate o non vengono prese affatto. Anche nei casi in cui venga attuata un’ordinanza restrittiva nei confronti dell’aggressore, o la vittima venga allontanata e portata in un contesto protetto, spesso i controlli non sono sufficienti a evitare nuovi incontri, soprattutto se ci sono di mezzo dei minori a carico, e spesso queste situazioni sfociano nel femminicidio. Si potrebbe inoltre discutere di quanto sia corretto allontanare la vittima e non il carnefice dal suo contesto sociale. Per quanto in alcuni casi sia effettivamente necessario al suo benessere, la vittima in questo modo si ritrova isolata, senza supporto fisico ed emotivo delle persone a lei care e senza conoscenza del territorio, oltre che spesso senza denaro, per cui, nel momento in cui si reinserisse nella società, sarebbe automaticamente in difficoltà, se non realmente emarginata. Anche dal punto di vista dell’effetto sociale, l’allontanamento della vittima non porta nulla di buono, perché lascia campo libero all’aggressore, che resta nel proprio contesto e con la sua rete di supporto, libero di distorcere a proprio favore la narrazione e acquisire il favore e la comprensione delle persone che lo circondano, mentre rende automaticamente la vittima impossibilitata a portare la propria narrazione e ad essere accettata dalla sua rete sociale e affettiva. Anche in tribunale, poi, spesso la vittima subisce vittimizzazione secondaria, venendo accusata di aver provocato il proprio aggressore, di non aver denunciato nelle modalità e nei tempi che si immaginano (da chi poi?) essere adeguati a tale scopo, se non addirittura di aver apprezzato alcuni suoi atteggiamenti molesti e violenti, per poi essersi rimangiat* tutto in aula. Come si può chiedere a una persona di denunciare, se quello che la aspetta rischia di essere feroce quanto ciò che lascia? È inoltre imprescindibile, partendo da quanto appena detto, ragionare sul consenso. Se una persona che decide di fare una qualsiasi attività capisse che questa non fa per lei o che la fa star male e non volesse più portarla avanti, verrebbe automatico dire che avrebbe tutto il diritto di tirarsi indietro. Questo principio, di per sé banale, viene però stravolto nel momento in cui si parla di violenza patriarcale, in cui la vittima viene spesso colpevolizzata per aver dato un consenso poi ritirato. Il consenso è parte del libero arbitrio di ogni persona, di qualunque genere e qualunque età, può essere dato e ritirato quando si voglia e l’unica che ha voce in capitolo a riguardo è la persona stessa che lo dà. Inoltre, in molti casi il consenso non è stato mai dato esplicitamente, ma semplicemente presunto dall’aggressore, che parte dal presupposto, egocentrico e patriarcale, di averlo nel momento stesso in cui avvicina la vittima, a prescindere dalle azioni e dalle parole di quest’ultima. Questo vale tanto nei casi di violenza sessuale quanto nei casi di omicidio patriarcale o di violenza domestica, perché il fatto di trovarsi, casualmente o per scelta, a fianco all’abusante non è in alcun modo indice di consenso. È difficile non rivedere in queste dinamiche l’impianto di quella stessa cultura aberrante che negli anni ’60 riteneva valido, in un’aula di tribunale, scambiare il rapimento di Franca Viola con una fuga d’amore e invocava la necessità di un matrimonio riparatore.
Per quanto i tempi siano cambiati, grazie alle faticose lotte di tant* compagn*, le radici sono profonde e c’è ancora tanto da fare. È indispensabile, perciò, un’educazione al consenso che parta dalle più piccole fasce di età e che riguardi ogni genere e ogni contesto sociale, oltre all’educazione sessuo-affettiva che insegni il rispetto dell* altr* e delle sue scelte. Vogliamo un mondo diverso, lontano dalla spasmodica ricerca di dominio per avere l’illusione di essere forti. La vera forza è quella della comunità, della rete che protegge e supporta le vittime e immagina un mondo libero dalla violenza patriarcale.
Se domani non torno, distruggi tutto,
se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.
– Cristina Torres Caceres
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