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La responsabilità di fare musica e l’importanza della curiosità: l’onda di Davide “Boosta” Dileo

words: Conzuelo Fogante

14.11

La responsabilità di fare musica e l’importanza della curiosità: l’onda di Davide “Boosta” Dileo

La responsabilità di fare musica e l’importanza della curiosità: l’onda di Davide “Boosta” Dileo

Mentre passeggiavamo tra i vicoli affollati, con la tranquillità di chi è abituato a rimanere calmo anche quando fuori calmo non è, Davide Dileo, in arte Boosta, ci ha raccontato dell’importanza della curiosità, del messaggio da trasmettere con ogni strumento possibile, dell’onda sinusoidale della musica, che è un po’ anche quella della vita. Un eterno ritorno, tra i bei vecchi tempi andati della scena clubbing e la voglia, viva più che mai, di fare e ascoltare bella musica.

L’onestà intellettuale di Davide è disarmante. Una sindrome da impostore della console che svanisce nel momento in cui si accorge che quella connessione tra lui e il pubblico esiste ancora, nonostante la forbice del tempo. La sua tribù non ha età: è la civiltà responsabile, dove responsabilità non è una parola che limita ma invita all’azione. Quella di Davide è continuare a fare musica, finché la curiosità continuerà a guidarlo.

La sua vita artistica è scandita da un rigore sinestetico che si traduce nelle tantissime attività che porta avanti; iniziative culturali come Gallerie Sonore, un progetto ambizioso di sound art, un’esperienza immersiva nelle quattro Gallerie d’Italia partita a Vicenza lo scorso 10 ottobre e che terminerà a Milano il 22 novembre – concerti dal vivo con lo scopo di dare voce a pezzi d’arte selezionati da Davide come ispirazione per la creazione di opere musicali uniche.

Ma la sua dedizione alla fusione tra arte e suono non finisce qua: Davide ha da poco inaugurato il suo studio d’artista, lo spazio “Sonogramma” – un ex laboratorio di ceramica trasformato in un cabinet di arte sonora. Dove? A Torino, ovviamente.

Se la tastiera è la naturale estensione delle tue mani, che cos’è la console?

La console è un’altra estensione. Dobbiamo immaginarla come nei cartoni animati in cui i supereroi cambiavano i loro componenti. È la stessa cosa, che si tratti di una tastiera, di una console, di una macchina fotografica o di una macchina da scrivere – che è una delle mie grandi passioni. L’importante è che siano tutti strumenti a disposizione di ciò che vuoi raccontare. Poi, ed è questo in realtà il vero fuoco, per avere qualcosa da raccontare devi essere molto curioso, devi avere la fortuna e il privilegio che la tua ispirazione non finisca o finisca il più tardi possibile. Finché c’è, credo che quello di esprimersi con qualunque mezzo tu reputi più adatto a quello che devi raccontare, sia un gesto molto onesto.

In passato ti sei esibito in tantissimi club internazionali e sei ancora molto attivo – cosa pensi della club culture di oggi e di chi la frequenta?

Sono laico. Credo che ogni generazione abbia il proprio movimento. È anche vero che tutto segue le leggi della fisica: la forma d’onda più semplice è una sinusoide che in alcuni momenti ha segno più, in altri ha segno meno. Lo stesso vale per la club culture, per le città, per qualunque cosa, incluse le nostre vite. L’andamento è sempre altalenante.

Rispetto al passato, quello che credo, o meglio, quello che ho visto e quello che mi manca, è trovare forse un certo tipo di curiosità, che suppongo a un certo punto tornerà. Una volta forse si usciva per andare a sentire e solo dopo ti rendevi conto di essere uscito. Adesso si esce e basta. Abbiamo un po’ invertito gli addendi. Se fosse ancora un periodo d’oro, tanti locali che hanno fatto la storia sarebbero ancora aperti, ma molti in Europa, e soprattutto in Italia, hanno chiuso. Se hanno chiuso, un motivo c’è. Questo non vuol dire che i giovani non abbiano voglia di divertirsi e di ascoltare buona musica. I festival dimostrano il contrario, anche quelli più ricercati e meno commerciali. Credo quindi che non sia essenzialmente cambiato quasi nulla se non la fruizione. C’è molta più musica in giro e quando c’è tanta offerta c’è più distrazione e meno voglia, perché ti senti oggettivamente overwhelmed.

Quando ti esibisci, cosa ti arriva dal pubblico di oggi?

Dipende, perché il tipo di energia cambia molto. Ho cominciato a mettere dischi che avevo 22-23 anni. Oggi ne ho 50 e la forbice si è allargata tantissimo. Anche per questo motivo lo faccio di meno, mi sembra di essere disonesto. Quando hai 20-30 anni e fai musica per ragazzi che hanno la tua età ti diverti molto, condividi lo stesso tipo di energia. Quando diventi grande non è più così, anche se hai ancora l’energia di un ventenne. Mi sembra un po’ di mentire. Quando però lo faccio perché ho voglia di farlo, voglia di godermi veramente una serata – e non una serata revival perché ovviamente parliamo di elettronica contemporanea, di qualità, che non ha tempo – cerco negli occhi la stessa cosa che cercavo quando avevo 20 anni: la comunione con le persone che ho davanti. Se io mi sto divertendo e vedo che le persone davanti si divertono, vuol dire che siamo nello stesso punto, nello stesso momento, stiamo sentendo la stessa cosa, vuol dire che va tutto bene.

Tribal è il leitmotiv del nostro ultimo issue – la comunità, il senso di appartenenza, un gruppo di persone che riconosciamo e che ci riconosce. La musica in questo gioca un ruolo chiave. Qual è la tua tribù?

L’ambizione è quella di appartenere alla tribù della civiltà, della civiltà responsabile. Responsabilità non vuol dire avere i paletti troppo stretti o dei paradigmi che non ti permettono di sforare. In effetti, quello che mi sembra di voler raggiungere man mano che cresco è la responsabilità, ed è una cosa che parte dalle mie azioni. Non è solo una questione morale, ma anche musicale: voglio prendermi la responsabilità di fare musica, perché per me è importante. Continuo a farlo perché mi piace, sono ancora ispirato e curioso, ma spero di avere il coraggio di smettere quando non avrò più nulla da dire. E ci vuole molto coraggio per farlo. In generale, la responsabilità è un concetto ampio, che va dalle relazioni con gli amici, la famiglia, fino alla città, alla nazione, all’Europa e al mondo. Il concetto di società responsabile mi affascina molto, e la tribù ne è un elemento.

Nei tuoi set integri elementi tribali? Quanto è importante?

Non li integro perché non è il mio, non li conosco abbastanza. Mi incuriosisce – ho comprato tantissimi dischi, un po’ ricercati, di musica africana e americana. La trovo molto affascinante, culturalmente e ritmicamente bellissima, ma non è quella che mi piace ballare.

Aslice chiude: la piattaforma di revenue sharing per DJ smetterà di pagare i produttori alla fine dell’anno. Cosa pensi dello squilibrio tra i compensi dei DJ e i pagamenti delle royalties dei produttori?

Credo che il lavoro vada sempre retribuito, ma per avere una giusta retribuzione bisognerebbe anche aggiungere un certo grado di onestà intellettuale. Non conosco bene i meccanismi di revenue sharing, ma credo che quello che facciamo non è un lavoro che va fatto gratis.

Sarebbe bello poter regalare la musica, in un mondo ideale, ma c’è un costo dietro alla creazione: macchine, attrezzature, studio – e questo è l’altro tema, perché oggettivamente non per tutti c’è dello studio quindi, se dovessi essere molto tranchant nel giudizio, mi dispiacerebbe moltissimo per chi fa il lavoro col cuore, con amore, con urgenza, con bisogno; altri lo fanno prendendo cose in giro a vanvera, lo fanno per soldi, quindi non me ne frega un cazzo. I produttori che amano la musica, che cercano, ricercano, fanno, disfano: devono essere pagati. Chi fa musica solo per guadagnare popolarità e soldi… In quel caso diventa un lavoro come un altro e nei lavori può capitare che a un certo punto i soldi non li prendi più.

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