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Music

IN FOCUS: BERLIN ATONAL | BILLY BULTHEEL

words: Alice Suppa

16.09

IN FOCUS: BERLIN ATONAL | BILLY BULTHEEL

IN FOCUS: BERLIN ATONAL | BILLY BULTHEEL

Con A Short Story of Decay II: The Fugue State, Billy Bultheel prosegue la sua meditazione sul collasso — non come astrazione filosofica, ma come esperienza che attraversa corpi, spazi e politica. Presentata al 3D Surface di Berlin Atonal, l’opera evocava un fragile dialogo tra polifonia medievale e distorsione, rituale e protesta, memoria e frattura. Con le parole di Edwin Nasr, la filosofia è stata trafitta dal filo tagliente del presente. In questa conversazione, Bultheel riflette sulla musica come qualcosa che può sgretolarsi e resistere, sull’architettura come performer e sulla memoria incompiuta del collasso che alimenta il suo progetto in corso.ù

A Short History of Decay nasce dalle riflessioni aforistiche di Cioran sul collasso e la sopravvivenza. In The Fugue State amplifichi questa idea attraverso la frammentazione sonora e spaziale. Come hai tradotto il peso filosofico di Cioran e Michaux in scelte compositive e performative?

Leggere Cioran oggi è stato inquietante per la sua attualità. La sua avversione ai profeti e agli idolatri sembra una critica lucidissima al fascismo che riemerge, alle stesse dinamiche viste prima della Seconda Guerra Mondiale e che oggi ritornano sotto forma di teatrini politici e dimostrazioni di forza grottesche.

Ciò che mi attrae della sua scrittura è l’uso dell’aforisma, delle impressioni fugaci, più che dei sistemi teorici: crea un paesaggio quasi immaginario, di natura narrativa, da cui affiorano idee contraddittorie. Questo labirinto frammentario è diventato la base compositiva del mio lavoro.

Il primo capitolo di A Short History of Decay riflette questa struttura con tre voci narranti, personaggi della stessa città che raccontano la Berlino post-7 ottobre. Testimonianze scritte con Edwin Nasr, volutamente contrastanti, che non offrono una verità unica ma disegnano un mosaico di impressioni di una società in collasso.

Il secondo capitolo, The Fugue State, si concentra sull’ultima di queste voci, quella che assume una posizione dissociata rispetto al presente. Da qui nasce una febbre collettiva, un sogno inquieto in cui il teatro viene travolto da un’onda mostruosa, vissuta insieme da pubblico e performer.

La performance assume un carattere ipnotico: testi frammentati, ispirati a Michaux, recitati da un narratore errante, con frammenti di Celan e Mishima che compaiono come presenze spettrali. Michaux, che esplorava la dissoluzione del sé anche attraverso gli allucinogeni, ci guida in questa esperienza di smarrimento.

E Cioran, tra l’idea che “l’ignoranza è felicità” e la certezza che solo la sofferenza porta verità, diventa la cornice di questo sogno febbrile: la sensazione di perdersi nel significato, di lottare contro forze che disorientano e illudono, fino al desiderio di dissociarsi dalla realtà.

Qui il collasso non appare soltanto come tema, ma come condizione estetica. Ritieni che la musica stessa possa crollare — a livello formale, emotivo o politico? E come traduci questa possibilità nei tuoi lavori?

Il collasso, per me, può persino sfiorare il fascismo, e sono consapevole di giocarci deliberatamente, ma sempre affiancandolo al suo contrario. Ciò che mi interessa è il contrasto: accostare la fragilità della musica dal vivo al rumore più travolgente.

In entrambi i capitoli i brani nascono dall’elettronica per poi trasformarsi gradualmente in melodie delicate eseguite dai musicisti. Non conta il volume, ma il modo in cui la traiettoria sonora si ribalta, lasciando emergere la fragilità.

Lavoro spesso con archi distorti su un amplificatore per basso: qui armonia e distorsione si inseguono sul filo del collasso. Gli accordi dissonanti si trasformano in paesaggi sonori intensi, mentre gli intervalli più consonanti tengono la distorsione sotto controllo. È un equilibrio instabile, un segnale che implode su se stesso e diventa parametro musicale.

Nel nuovo capitolo hai introdotto flauto, basso e clavicembalo. In che modo queste voci riflettono il tuo interesse per la polifonia medievale e rinascimentale, dialogando al tempo stesso con le tessiture dissonanti che spesso utilizzi? E questa tensione tra risonanza storica e rottura violenta è per te una scelta consapevole, quasi metaforica, o piuttosto un istinto musicale?

Direi che ormai è diventato un istinto. Ho studiato musica elettronica al Conservatorio Reale dell’Aia, concentrandomi sulla contemporanea, ma lì c’era anche un dipartimento di musica antica straordinario. Seguire un corso su Ars Nova e Ars Subtilior è stata una rivelazione!

Questi compositori lavoravano con principi sorprendentemente vicini alla composizione algoritmica: le loro voci funzionavano come sintetizzatori sperimentali, i modi ecclesiastici come filtri di frequenza, i sistemi ritmici come step sequencer. Canoni, fughe, retrogradi, prolazioni: dopo Xenakis e Stockhausen, mi sembravano familiari.

Da allora ho smesso di guardare a quel periodo come a un’epoca di venerazione, e l’ho riconosciuto come una stagione di sperimentazione radicale. È da qui che nasce la tensione che citi: non compositori devoti al sacro, ma pionieri che spingevano i limiti del possibile.

Parliamo della scenografia: la torre-acustica simile a un pulpito era allo stesso tempo altare e spartito. Come è nata questa idea e come credi abbia influito sulla percezione del pubblico e ma anche sui musicisti?

Il pulpito è nato per la mia personale Miserable Miracle nella chiesa romanica del KunstMuseum Magdeburg, dove per tre mesi ha funzionato come installazione sonora, una struttura-spettro che riproduceva frammenti di una performance ancora in divenire.

Tradizionalmente, il pulpito è il luogo della parola del sacerdote, contrapposto al coro. Mentre le voci del coro si disperdono in alto, creando un suono etereo, il pulpito ha un soffitto riflettente che fa cadere la voce direttamente sui fedeli: intima, quasi claustrofobica, come dentro la tua testa.

Queste tecniche psicoacustiche medievali trasformano la chiesa in un paesaggio sonoro fatto di dinamiche di potere: la voce autoritaria dall’alto che però sembra vicinissima, in contrasto con il coro distante, elevato come meta catartica. Questo intreccio di musica, acustica e politica del corpo mi affascina. La struttura incornicia i musicisti, trasformandoli in gargoyle, angeli, dittatori: elevati e intrappolati insieme in un’architettura di controllo.

E le urne di vetro sospese al suo interno? Sono solo scenografia o hanno anche un valore sonoro?

Al centro del pulpito ho appeso urne di vetro soffiato, ispirate a curiosi artefatti psicoacustici che ho trovato nei muri di chiese medievali in Bretagna. Erano risonatori costruiti per armonizzare frequenze specifiche, permettendo ai monaci di “accordare” la riverberazione della chiesa.

Li ho trovati perfetti per lavorare sul concetto di “decadimento” sonoro: non strumenti che producono suono, ma che ne guidano l’eco e la trasformazione. Portandoli fuori dal muro e appendendoli nello spazio, il pulpito è diventato un amplificatore medievale, che risuona con i testi di Cioran e Michaux.

I monologhi sono stati scritti con Edwin Nasr, la cui posizione a Berlino è stata messa in discussione dopo le sue prese di posizione contro la guerra israeliana in Palestina. Questo introduce un’urgenza politica molto diretta in un progetto altrimenti legato a riferimenti esistenzialisti e letterari. Come vivi lo scontro tra riflessione filosofica e la violenza geopolitica del presente? E quale responsabilità senti, come artista, nel dare voce a queste posizioni?

Questi cambiamenti oscuri nel tessuto sociale berlinese, l’ondata autoritaria che cresce in Germania, non sono fiction. Quasi tutti nel mio team sono stati toccati: violenze della polizia alle proteste, finanziamenti pubblici negati, o nel caso di Edwin, vere e proprie campagne diffamatorie e pressioni legali.

Il lavoro è nato proprio perché, rifugiandomi nella letteratura, gli aforismi di Cioran mi suonavano terribilmente familiari al presente. Assimilarli e trasformarli in performance è diventato un modo per intrecciare la mia pratica con l’esperienza vissuta.

Edwin è un amico di lunga data, la sua scrittura mi ha sempre ispirato. Coinvolgerlo è stato stimolante artisticamente, ma anche necessario: un’urgenza di affrontare il presente. L’opera diventa una forma di testimonianza, un modo per elaborare e al tempo stesso non lasciare che certe voci vengano messe a tacere.

Ad Atonal, The Fugue State si è svolto nello spazio 3D Surface, dove l’architettura sembrava fondersi con la tua drammaturgia fino a diventare parte della performance. Visto che A Short History of Decay è un progetto ancora in evoluzione, pensi che anche i luoghi e le scenografie ne determineranno lo sviluppo? E quali elementi senti che mancano ancora?

Sì, immagino che il progetto diventi un trittico. Non ha una struttura lineare o dialettica, ma piuttosto “collassabile”: ogni capitolo si incastra nell’altro come in un labirinto, insieme a interludi e lavori paralleli, come l’installazione Miserable Miracle o il video Jetty, presentato al CIRCA Art Prize a Piccadilly Circus.

Non so ancora come sarà l’ultimo capitolo: nascerà in risposta a ciò che accadrà nel mondo. Lo svilupperò durante la mia residenza a New York, dal maggio 2026, e credo che l’America offrirà un contesto diverso, in cui gli stessi problemi — fascismo strisciante, disgregazione sociale — si manifestano con altre forme. Lì, la musica potrà accendersi con tutta la sua potenza.

Il pulpito continuerà a viaggiare. Si è trasformato capitolo dopo capitolo e, nell’ultima parte, mostrerà fino a che punto si è modificato attraversando la politica del XXI secolo.

Penso che il finale si concentrerà su testi di scrittori contemporanei, spostando l’attenzione dal periodo pre-bellico al presente. Vorrei che si concludesse anche con un disco che raccolga l’intero percorso: le musiche, i testi, un booklet che ne documenti la storia. Una memoria polifonica del collasso nel XXI secolo.

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