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Music

IN CONVERSATION WITH: LE MOTEL

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Il suono come memoria, corpo e visione.

17.03

IN CONVERSATION WITH: LE MOTEL

IN CONVERSATION WITH: LE MOTEL

Un viaggio non è mai soltanto un attraversamento geografico. È un’alterazione della percezione, una collisione di immagini, suoni e lingue che si sedimentano nel corpo. Odd Numbers / Số Lẻ nasce da uno di questi attraversamenti. Un viaggio in Vietnam, inizialmente un’occasione performativa, si trasforma in qualcosa di più vasto: un archivio sensoriale, un campo di tensione tra documento e immaginazione.

Nel lavoro di Le Motel, il suono è un vettore di connessione, un dispositivo che scavalca il tempo lineare e si fa spazio condiviso. Field recording, elettronica e poesia non sono elementi separati, ma il linguaggio attraverso cui il reale viene ricomposto e stratificato. L’album è un frammento di questa stratificazione, un luogo in cui la voce umana si incastra nella materia sonora, in un gioco di rimandi tra memoria individuale e collettiva.

Ma Odd Numbers non è solo un album. È un’installazione, un ecosistema audiovisivo in cui la percezione si espande e il suono diventa immagine, scrittura, ritmo. In questa conversazione, Le Motel traccia le traiettorie del progetto, esplorando l’idea di collaborazione come atto di traduzione, il suono come corpo e la musica come strumento per abitare il tempo.

Un viaggio in Vietnam diventa un disco, un’installazione, una narrazione aperta. Da dove nasce questo processo?

Sono andato in Vietnam per suonare in un club di Hanoi. Quando viaggio così lontano, cerco sempre di trasformare l’opportunità in qualcosa di più profondo, che si estenda nel tempo.

Durante i miei viaggi, registro sempre suoni e cerco di connettermi con la scena locale per comprenderla, il che può portare a collaborazioni significative. Il viaggio in Vietnam è stato particolarmente ricco di incontri con artisti, poeti e musicisti. In quel momento mi stavo semplicemente godendo il presente. Sentivo che un progetto stava emergendo, ma non sapevo ancora quale forma avrebbe preso.

La tua metodologia si basa su una collaborazione profonda, coinvolgendo artisti locali, poeti ed etnomusicologi, lavorando a distanza e lasciando spazio alla reinterpretazione. Qual è stato il momento più sorprendente o inaspettato in questo scambio?

Il processo legato alle tre poesie è stato molto interessante e organico. Tornato a Bruxelles, mi sono seduto in studio e ho iniziato a comporre degli schizzi basati sui frammenti sonori raccolti e sulle emozioni che mi avevano suscitato. Ho inviato tutte quelle tracce al poeta vietnamita Phapxa Chan senza spiegare nulla; ogni settimana ricevevo un nuovo messaggio nella mia casella di posta con una poesia che aveva scelto, spiegando cosa lo aveva ispirato.

Estratto di una conversazione tra Phapxa Chan e Le Motel:

“Caro amico, oggi sono stato rapito dal tuo brano ‘Chi Chi Walking’. Mi sono lasciato trasportare dai passi e dalle risate delle ragazze delle montagne. Poi, all’improvviso, quando la loro voce si è affievolita e la tua musica è risuonata come nuvole di nebbia, sono precipitato in una solitudine profonda. In quel luogo mi sono sentito vulnerabile, come un bambino di tre anni. È così che ho percepito il tuo lavoro.”

Volevo creare un dialogo tra la sua voce e quella di una donna di un’altra generazione, perché faceva parte del concetto dell’album. Ho chiesto a Bui Thi Oanh, madre di un amico che vive a Bruxelles, di registrare un’interpretazione molto intensa. Avevo paura che non rispettasse esattamente l’intenzione del poeta, quindi gliel’ho inviata subito. Questa è stata la sua risposta:

“Caro amico, sono profondamente commosso. La voce della donna che legge le mie poesie è meravigliosa. Ho pianto sentendola. È una voce piena di nostalgia. Ti prego di ringraziarla da parte mia. Tutto è semplicemente splendido.”

Mi rendo conto ora che, in questo progetto, si sono allineate molte stelle.

L’album fonde field recording, musica elettronica e spoken word, con un forte focus sugli ambienti sonori e sulla memoria collettiva. Come bilanci l’aspetto documentaristico con quello espressivo?

Non ci penso troppo e non pianifico nulla. Quelle registrazioni sono legate a memorie, incontri, emozioni. Le ascolto in loop e cerco di ricostruire le storie che mi sono rimaste impresse. Di solito il processo è molto rapido e naturale. La mia più grande difficoltà è finalizzare quelle idee.

Odd Numbers sfida l’idea tradizionale della musica ambient come sottofondo discreto e diventa invece un’esperienza d’ascolto stratificata e immersiva. Qual è il tuo rapporto con l’ambient come genere e concetto?

Penso che la musica ambient possa essere un termine molto vago e persino dispregiativo per alcune persone. Personalmente cerco di evitare le etichette in generale, ma non ho problemi con la parola ambient. Credo che la curatela di Balmat sia un ottimo esempio di quanto l’ambient possa essere vario e contrastato.

Per me deve raccontare una storia, ispirare un viaggio mentale o spirituale, ma è una definizione aperta. Anche la dimensione visiva è fondamentale: ho concepito questo album come una partitura musicale.

Il progetto non esiste solo come album, ma anche come mostra multimediale che include video, fotografia e testi. Come cambia la percezione della tua musica quando viene inserita in un contesto visivo e spaziale?

Il mio background è nel graphic design. Oltre a questo, ho sempre fatto fotografia e arti visive in generale. Compongo anche colonne sonore per film, che rappresentano il perfetto equilibrio tra tutte le mie passioni.

Penso che l’aspetto visivo della musica sia importante quanto la musica stessa. Ho affrontato questo progetto avendo già molte immagini in mente. Volevo che fosse un lavoro a 360°, con diversi media per raccontare la storia che immaginavo.

Per l’installazione A/V ho lavorato con il visual artist Antoine Jaunard, e la nostra più grande sfida è stata trovare il limite tra aggiungere un livello narrativo senza interferire con l’immaginazione dell’ascoltatore. La musica, di per sé, è già molto visiva; volevamo andare oltre, stratificare la narrazione.

Musica e moda condividono un dialogo intrinseco, plasmando e riflettendo identità culturali. Come hai affrontato questa intersezione quando hai composto la colonna sonora per Bottega Veneta, e che ruolo gioca il suono nel tradurre l’estetica di un brand in un’esperienza immersiva?

La musica che ho composto negli ultimi anni per le collezioni Bottega Veneta di Matthieu Blazy era molto legata al mio lavoro per colonne sonore. Ho collaborato con Pierre Debuschere, Image and Music Director del brand. Matthieu ci dava una storia diversa per ogni show; immaginava ogni look come un personaggio cinematografico con un proprio background e stato mentale. La sfida era trascrivere questa narrazione nella musica.

Anche i field recording hanno giocato un ruolo significativo. Alla fine, la musica veniva concepita come un pezzo unico, quasi come un cortometraggio.

La tua collaborazione con Antoine Jaunard ha portato all’integrazione di tecniche come la trasformazione di immagini ASCII, creando un ponte tra il mondo analogico e digitale. Come è nata questa scelta e che significato ha all’interno della narrazione dell’album?

L’album si chiama Odd Numbers, numeri dispari che non possono essere divisi in due parti uguali. Nella cultura vietnamita, alcuni rituali seguono numeri dispari: quando si accende l’incenso, si scelgono uno, tre o cinque bastoncini, con il tre considerato ideale. Lo stesso vale quando ci si inchina davanti a una bara: bisogna tenere i bastoncini d’incenso tra le mani e fare uno, tre o cinque inchini.

La poesia ha giocato un ruolo significativo nel progetto. Antoine e io veniamo dal graphic design, quindi sapevamo che volevamo lavorare con la tipografia e mescolare il concetto di numerologia con l’alfabeto vietnamita e le poesie dell’album. Ci ha anche permesso di creare un livello di astrazione quando ne avevamo bisogno.

Club culture e musica elettronica hanno avuto un ruolo importante nel tuo percorso, accanto all’esplorazione di paesaggi sonori più meditativi. Come coesistono questi due aspetti nei tuoi set e nelle tue composizioni?

Direi che ho un rapporto bipolare con la musica. In studio, a volte quello che emerge è molto calmo, altre volte è percussivo e orientato al club.

Ho deciso di mantenere lo stesso nome per tutti questi progetti, pur sapendo che sarebbe stato più difficile da decifrare, ma mi piace questa complessità. Mi piace sorprendere le persone, far scoprire loro un lato della mia musica che non si aspettavano.

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