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Music

IN CONVERSATION WITH: KUKII

words: Nicola Sabatini

03.04

IN CONVERSATION WITH: KUKII

IN CONVERSATION WITH: KUKII

Una rinascita è raramente silenziosa. Può essere un’eruzione, una frattura – un rifiuto audace di lasciarsi confinare dalle identità del passato. L’impressione è che KUKII emerga proprio da questo fuoco, riscoprendosi diversa per le strade del Cairo, con un’identità che è al tempo stesso campo di battaglia e terreno di gioco.

Dopo aver pubblicato tre album acclamati dalla critica con etichette prestigiose come Warp e !K7 sotto il nome Lafawndah, l’artista cresciuta a Parigi ora avanza sotto una nuova bandiera – impregnata di echi ancestrali e di un futurismo provocatorio. Quella che era iniziata come una riscoperta delle proprie origini personali e familiari si è trasformata in qualcosa di più grande. La rinascita di KUKII più che un cambio di nome è piuttosto una metamorfosi, una mitologia in movimento.

Il suo EP di debutto, Rare Baby, si svolge come un sogno febbrile – tamburi Mahraganat che si scontrano con la forza grezza del punk, scale mediorientali che si intrecciano con un pop elettrificato, una voce che si rifiuta di essere domata. Se il singolo Rare Baby – pubblicato il 20 novembre – è una chiamata alle armi, l’album stesso è il campo di battaglia: indisciplinato, estatico, colmo di tensione ed echi liberatori. Ma soprattutto, è costantemente in movimento, alimentato da una capacità innata di rinnovarsi.

Tra moto perpetuo e influenze culturali diverse, la musica di KUKII suona sia come un invito che come una provocazione. Tuttavia, questo ritorno alle radici non riguarda la nostalgia o la conservazione – è piuttosto una metamorfosi che si spinge implacabile oltre le aspettative, plasmando suoni capaci di avanzare alla ricerca costante di qualcosa di nuovo, spudorato e imprevedibile.

Abbiamo parlato con KUKII di questa trasformazione, del percorso che ha portato a Rare Baby e dell’alchimia che cerca nelle sue collaborazioni, svelando il nucleo sonoro ed emotivo del suo ultimo lavoro – dove la vulnerabilità incontra la forza, mentre la musica diventa sia arma e che rifugio.

Per usare le tue parole, KUKII «non appartiene a nessun luogo, vive ovunque ed è atterrata al Cairo». Puoi raccontarci un po’ di più di questa identità fluida del tuo alter ego? Cosa ti permette di sbloccare artisticamente?

Beh, credo che questa domanda sia sempre stata un po’ difficile – non proprio difficile, ma credo di aver sempre avuto la sensazione che tutti avessero una risposta tranne me. Penso che sia abbastanza sintomatico dell’esperienza diasporica. Ma oltre a questo, c’è anche un livello comune a molte persone con genitori che sono migrati. E poi, sopra tutto ciò, c’è il modo in cui la mia famiglia affrontava la propria identità e come io riuscissi o meno a inserirci la mia.

E poi c’è un altro livello – il crescere senza conoscere affatto una parte della mia famiglia. Non sono cresciuta vicino al lato egiziano, non li conoscevo proprio, e questo ha aggiunto un’ulteriore sensazione di fluttuazione in termini di provenienza.

Penso anche che, per la maggior parte, l’esperienza umana sia sempre stata legata al movimento, al nomadismo. Il modo in cui parliamo di identità oggi – questo modo fisso, definito – è in realtà un concetto piuttosto recente. Per la maggior parte della storia, le persone si spostavano, si mescolavano, davano vita a nuove generazioni e queste generazioni si mescolavano ancora. Sento questo molto più profondamente nel mio DNA rispetto a qualsiasi senso di un’esperienza sedentaria.

Ovviamente, è anche un privilegio – ho il passaporto giusto e posso muovermi, cosa che oggi non vale per molte persone. Però credo che l’intera idea dello stato-nazione, dell’essere sedentari, sia relativamente recente. E sento, nel mio DNA, una sorta di ribellione contro questo paradigma, anche se adesso ci sembra normale. Ci si aspetta continuamente da noi che definiamo chi siamo sulla base del luogo in cui siamo nati o da dove vengono i nostri genitori. Ma onestamente? Credo che sia un po’ sopravvalutato.

Hai vissuto e creato in molti luoghi diversi. Che cos’ha il Cairo che lo ha reso il posto in cui KUKII è pienamente emersa? Si tratta di un luogo specifico, o piuttosto di un’identità in movimento?

Sì. E voglio dire, mio padre è egiziano, ma non sono cresciuta con alcuna informazione su quel lato della mia famiglia. Ho cominciato ad andarci per la prima volta nel 2016 o 2017, credo, per suonare a un set di Boiler Room. Quindi, è stata la musica a portarmi lì la prima volta. E lì ho incontrato alcuni musicisti che mi hanno davvero cambiato la vita.

Attraverso quella connessione, attraverso la musica, ho continuato a tornarci – prima una volta all’anno, poi due volte all’anno. E il Cairo ha iniziato a darmi molte risposte. Risposte musicali, risposte spirituali, risposte familiari. È diventato un portale molto potente, carico di significato per me. Così, ho semplicemente continuato a tornarci.

E poi, recentemente, ho sentito come se finalmente stessi atterrando dentro me stessa – una sensazione che non avevo mai provato prima. Ho sempre avuto questa irrequietezza, questa incapacità di stabilirmi o mettere radici da qualche parte. Ma in qualche modo, al Cairo, quella sensazione ha iniziato a placarsi.

In tutti questi anni che continuavo a tornarci, avevo soltanto un nome della mia famiglia – KUKII. È la sorella di mio padre, ed era l’unica parente di cui avessi conoscenza. Sapevo di avere una zia chiamata KUKII. Sapevo di averla incontrata una volta, quando avevo un anno, al Cairo. Tutto qui. Questo era tutto ciò che sapevo dell’intera mia famiglia.

Così, ogni volta che tornavo al Cairo, avevo questa fantasia su chi fosse, su come apparisse. Camminavo per strada e pensavo, forse quella è KUKII, forse è lei. È diventata quasi come un personaggio di fantasia per me – un punto di attaccamento alla stessa città del Cairo.

E ora, finalmente, so chi è. Conosco la sua storia. Ed è ancora più di quello che avevo immaginato: questa donna iconica che ha fatto scelte incredibili, che ha uno stile straordinario. È migliore di tutte le versioni di lei che avevo creato nella mia testa.

Ma è anche alla fine del suo percorso: ha avuto diversi ictus negli ultimi anni e si trova tra la vita e la morte. E c’è qualcosa nel prendere il nome di qualcuno che sta per lasciare questo mondo che ho trovato davvero interessante.

Rare Baby è uscito il 28 marzo. Cosa possiamo aspettarci in termini di suoni e temi?

Credo che possiate aspettarvi di viaggiare. C’è una sorta di traiettoria che si sviluppa dalla A alla Z.

Quando faccio ascoltare il disco alle persone, ho notato che a volte rimangono sorprese – forse perché quando sentono Rare Baby, si aspettano che l’intero album suoni allo stesso modo. Ma c’è movimento, c’è un viaggio che avviene.

C’è anche molta vulnerabilità – specialmente nei testi, ma anche nella voce. Il modo in cui uso la mia voce non è orientato a essere bello, e penso che quello sia uno spazio molto vulnerabile in cui esistere, soprattutto come donna. C’è ancora questa aspettativa che le voci femminili abbiano una certa raffinatezza, una sorta di bellezza levigata. Non mi interessa.

Quindi, sì, direi che questo disco è vulnerabile. Esplora. È un’avventura. Non è soltanto un’atmosfera. Alcuni dischi – e anche io ho fatto album così in passato – ruotano attorno a un’idea centrale che si estende su tutto. Invece questo si muove, si espande e si prende dei rischi. Ogni canzone proviene dallo stesso corpus di lavoro, ma sono tutte distinte tra loro.

È un viaggio. Questa è la parola giusta.

Ti sei ispirata al Mahraganat e alla tradizione musicale di Bushehr, fondendo le tue radici egiziane e iraniane con influenze pop per creare qualcosa di radicalmente diverso – e radicalmente nuovo. È stato difficile bilanciare queste diverse eredità musicali?

No, è stato piuttosto naturale. Questi suoni sono con me da molto tempo. Ascolto il Mahraganat dal 2016, ma tutto il resto – queste influenze – sono con me fin dalla nascita.

Quello che stai descrivendo è molto specifico per il pezzo Rare Baby, per il modo in cui fonde così visibilmente le influenze. Ma in tutto il disco, le ispirazioni provenienti da Egitto e Iran emergono in modi che non sempre sono letterali come il prendere in prestito da un genere specifico.

Compaiono nelle scale che uso, nel tono della mia voce, nell’asprezza dei vocal. È qualcosa che faccio fin dal mio primo album, quindi per me non è una novità.

Ma quando ho ricominciato ad ascoltare il Mahraganat, questo mi ha dato una sorta di permesso di spingermi ancora più avanti – trovare nuovi modi di esprimere il malcontento nella musica pop, creare qualcosa che non suonasse consensuale. Questo è ciò che prendo dal Mahraganat – non solo i tamburi, ma l’energia rivoluzionaria della musica.

Lo stesso vale per l’influenza della musica folk iraniana. Non si tratta soltanto di suoni specifici – si tratta del modo in cui le cantanti folk usano la voce, delle scelte tonali che fanno. Tutto ciò è presente lungo tutto il disco, anche se forse non sempre in modo così evidente come in Rare Baby, che è più diretto nella sua fusione. Il mix c’è sempre, ma attraversa la musica in modi diversi – non solo nella strumentazione, ma nell’energia, nelle texture, nell’approccio vocale.

E poi, sopra tutto questo, c’è anche molto punk in questo disco. Molte influenze degli anni ’90 – Nirvana, Smashing Pumpkins… Quei riferimenti adolescenziali alla musica con le chitarre sono una parte importante. E quello che ho capito molto più tardi nella vita è che esiste un equivalente di questo tipo di musica grezza e ribelle anche nella parte del mondo da cui provengo.

Ultimamente, ho ascoltato molte cantanti mauritane che mi ricordano una specie di PJ Harvey del deserto. Ho ascoltato molte donne Tuareg che suonano la chitarra e cantano. Quindi, in un certo senso, si è trattato anche di ricollegare questi punti – prendere questa musica basata sulla chitarra con cui sono cresciuta e poi rendermi conto che c’è tutta un’altra serie di riferimenti, provenienti dall’Est, altrettanto potenti. Questa scoperta ha modellato enormemente anche il disco. Non è solo Iran o Egitto – è tutto questo più ampio spettro di influenze che si uniscono.

Hai descritto il video di Rare Baby come una sorta di Kill Bill in chiave egiziana ispirato a Kuroneko e Lady Snowblood – In che modo questa estetica cinematografica si collega alla tua storia personale, e cosa ti ha spinto a reimmaginarla al Cairo?

Credo che alla fine sia soltanto una questione di gusto personale. Guardo moltissimi film – probabilmente più di quanta musica ascolti. Il cinema è sempre stato una grande fonte d’ispirazione per me.

Fin dalla tarda adolescenza, quando ho avuto per la prima volta accesso al cinema giapponese degli anni Settanta, sono stata molto attratta da questo genere. Un’altra grande fonte d’ispirazione, che forse non è stata menzionata nel comunicato stampa, è The Assassin di Hou Hsiao-Hsien. È un film taiwanese del 2015 che avrò visto almeno 200 volte. Puoi sicuramente aggiungerlo alla lista dei riferimenti.

Credo che ciò che mi affascina davvero di questo genere sia che non riesco a pensarne un altro che abbia prodotto così tante eroine femminili – donne che non sono solo protagoniste, ma che si impegnano in combattimenti in modi così abili e dinamici. C’è sempre anche questo elemento di fantascienza, di sfida alla gravità – questi momenti in cui la storia è ancorata alla realtà e, improvvisamente, accade qualcosa di impossibile. È come il mondo che conosciamo, eppure leggermente fuori da esso.

Quella sensazione è stata davvero importante per me nella realizzazione di Rare Baby. Il video è girato per le strade del Cairo, nel presente – vedi le persone, le macchine – ma qualcosa nel modo in cui siamo vestite, nel modo in cui ci muoviamo, nelle azioni che compiamo, dà l’impressione che esistiamo leggermente accanto alla realtà. È un tono che cerco sempre, e credo sia questo il motivo per cui sono così attratta da questi riferimenti cinematografici.

Ma in fin dei conti, sono semplicemente ossessionata da questo genere. Per me è stato entusiasmante prendere in prestito questo tipo di narrazione e trasferirla in un contesto nuovo. Di solito questi film sono ambientati in Cina o in Giappone, a seconda del regista, ma volevo vedere come questo linguaggio visivo potesse tradursi in un luogo differente.

Allo stesso tempo, per me era molto importante che Rare Baby non fosse un video sul Cairo.

Volevo fare un film che casualmente si svolgesse lì, ma senza mettere al centro la città come soggetto. Era fondamentale creare qualcosa decentrato rispetto all’Occidente – dove tutto intorno a te semplicemente non è Occidente, ma senza che questo diventasse il punto centrale o qualcosa da spiegare. La città non doveva essere una dichiarazione. È solo lo sfondo, neutro come se avessimo girato il film a Parigi.

Ci ho riflettuto molto perché penso che molti video musicali – specialmente quando gli artisti tornano a girare nei luoghi d’origine – finiscano per rendere la città o il luogo il soggetto principale. Spesso, le immagini tendono verso rappresentazioni familiari, quasi cliché di quel posto. Non volevo questo. Volevo raccontare una storia.

Uno degli aspetti più potenti del video di Rare Baby è lo stile, ma anche la sua trama – un viaggio al femminile alla ricerca di tua zia. Nel mondo di KUKII, com’è fatto un eroe?

Beh, credo che l’intera canzone nasca dal punto di vista di una bambina, o forse di una ragazza appena adolescente, che si vendica per il fatto di non sentirsi bene, di non sentirsi a casa da nessuna parte. E così scrive questo inno in cui dice cose tipo, “Beh, io sono questo e sono quello.” È sicuramente una canzone molto impertinente, che proviene chiaramente da una prospettiva infantile.

Con le immagini volevo catturare questa sensazione, ma forse anche come una specie di vendetta per essere cresciuta senza vedere molte immagini di persone simili a me in ruoli eroici. Quindi, per me, l’eroismo in Rare Baby è molto chiaro: un eroe non è un individuo. Un eroe è un’esperienza collettiva. Ecco perché nel video non mi vedi mai sola. Mi vedi sempre in gruppo – sono con le mie quattro amiche, poi con ragazze adolescenti, poi con donne più adulte.

Perché se l’idea di un eroe provenisse da una cultura diversa da quella occidentale, sarebbe molto diversa. In Occidente, l’eroismo è un concetto molto individualistico, qualcosa di esternalizzato. Ma se lo definiamo per noi stesse, penso che l’eroismo sia qualcosa di completamente differente. Il femminile è collaborativo, è orizzontale, è transgenerazionale. L’eroismo è quando tre o quattro generazioni diverse si uniscono – per costruire qualcosa, per andare da qualche parte, per raggiungere insieme un obiettivo.

Questo era il concetto visivo principale dietro Rare Baby. Anche se il testo potrebbe sembrare individualistico – è scritto come un inno – in realtà è qualcosa che chiunque può fare proprio. Tutti possono essere una «rare baby», o in qualche modo lo sono già. E quando lo canti insieme, diventa un esercito di «rare babies». Questo per me è ciò che appare eroico – è qualcosa di collettivo, qualcosa che si diffonde, qualcosa di orizzontale.

Per il tuo ultimo singolo, Daylight Heist, e per l’EP in uscita hai collaborato con diversi artisti (Cecile Believe, Happa, Nightfeelings…). Cosa apprezzi di più in queste collaborazioni? Come scegli i collaboratori che entrano a far parte del tuo mondo?

La cosa più emozionante della collaborazione è la possibilità di creare qualcosa di nuovo – qualcosa che non avrebbe potuto esistere se fossi stata sola. Vivi con il tuo cervello, ma quando il tuo cervello si scontra con un altro, genera un mondo completamente nuovo. È questo ciò che mi entusiasma di più – non sapere cosa emergerà. L’ignoto. È come fare un bambino, no? Qualcosa che va oltre quello che ciascuno di noi avrebbe potuto immaginare da solo.

Le collaborazioni sono come una specie di superpotere. Portano ricchezza, creano mondi possibili. E ciò che amo di più delle collaborazioni che ho fatto è che, per la maggior parte, se ascolti il lavoro solista dei miei collaboratori e poi ascolti ciò che facciamo insieme, non li riconosceresti immediatamente. Non diresti semplicemente: «Ah, ecco tal dei tali che fa le sue cose con lei». Piuttosto diresti: «Whoa – assurdo che questa persona abbia fatto questo».

Questa è la mia fissazione. Questo è ciò che mi entusiasma davvero. Credo di avere un talento nel creare una cornice, nel far salire tutti sull’astronave – io so cos’è l’astronave – ma una volta che decolliamo, arriviamo da qualche parte inaspettata.

Ed è anche per questo che non scelgo i collaboratori solo perché mi piace quello che fanno e voglio che lo facciano con me. Non funziona così.

C’è sempre qualcosa nella mia mente che crea una specie di sinapsi, ma di solito riguarda più l’anima che altro. Si tratta di qualcuno che mi commuove, qualcuno che esplora qualcosa che mi entusiasma. Molte delle mie collaborazioni nascono da un luogo molto personale – non si tratta solo di ammirare il lavoro di qualcuno, si tratta di sentirsi profondamente connessa con quella persona.

Voglio creare con qualcuno non solo perché amo la sua musica, ma perché c’è una vera connessione di cuore. È veramente intima.

Ecco perché non sono mai riuscita a fare collaborazioni in quello stile pop tipico di Los Angeles, dove vieni messa in uno studio con un gruppo di produttori per far succedere qualcosa. Ci ho provato, perché penso che sia interessante poter creare musica con chiunque, in qualsiasi momento, ma semplicemente non funziona per me. Non riesco a creare nulla di significativo in quel contesto.

Per me le collaborazioni avvengono in contesti molto intimi. Passiamo del tempo insieme, diventiamo amici, parliamo di musica, ascoltiamo musica insieme. E attraverso questa vita – quei momenti di intimità, amicizia, amore – la musica arriva naturalmente.

Quindi è così che scelgo le persone. Non è soltanto perché amo ciò che fanno – ovviamente amo sempre ciò che fanno – ma se collaborassi con tutte le persone di cui ammiro il lavoro, avrei un gruppo completamente diverso di collaboratori. È veramente una questione di connessione, della vita condivisa tra noi.

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