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Music

IN CONVERSATION WITH: Jennifer Walton

words: Pietro Pascolini

21.10

IN CONVERSATION WITH: Jennifer Walton

IN CONVERSATION WITH: Jennifer Walton

Quello di Jennifer Walton è un nome che potrebbe suonare poco familiare ai non addetti ai lavori, ma scavando meglio si scopre che il suo microcosmo tocca i progetti musicali più disparati. Al di là del suo lavoro da solista, che vede anche la produzione di colonne sonore, Jennifer è stata la batterista live dei Kero Kero Bonito, collabora con Sarah Midori Perry nel duo Cryalot, ha remixato Metronomy e lavorato con nomi come Iceboy Violet, BABii, Gentle Stranger. A rimarcare la sua poliedricità artistica, come se ciò non bastasse, il progetto Microplastics, assieme agli amici aya e 96 Back, e il recente contribuito in caroline 2, album del collettivo londinese caroline. Il 24 ottobre esce Daughters, il suo primo album. Abbiamo colto l’occasione per fare due chiacchiere, sull’album, sulla sua storia, sulla musica, come sempre.

Ciao Jennifer, benvenuta su t-mag. Inizierei chiedendoti di presentare l’universo dell’album… hai iniziato a pensarci anni fa, è stato un processo lungo. Dunque, mi piacerebbe che raccontassi la tua storia a riguardo.

È esplicitamente un album sul dolore, su tutte le sue complessità e sul suo intreccio in parti diverse della mia vita e in qualche modo della vita di mio padre. Riguarda l’interazione tra dolore e sogni, e su come tutto ciò si inserisce nel tour fatto in America, sul tipo di fusione di questi due estremi e sull’ irrealtà che possono causare. È una sorta di autocampionamento, estrarre cose della mia vita, dalla mia vita.

Ho percepito questa atmosfera continua di leggerezza e pesantezza, di ordine e caos. Ho sentito la gentilezza della voce e degli arpeggi di chitarra rispetto alle percussioni e ad alcune parti molto distorte. E l’ho trovato un bellissimo gioco di tensioni. Corrisponde a un gioco di tensioni interiore?

Totalmente. È come se lo attribuissi a un’idea sulla complessità, a un insieme di grovigli che caratterizza la natura nella sua totalità. Cerco costantemente di intrecciare le texture. Quindi, anche se la scrittura delle canzoni è abbastanza semplice, penso sempre a rendere il tutto complicato, discordante. È la stessa tensione presente tra la quiete e il tentativo di trovarla internamente e le onde che stanno all’esterno, le onde della vita.

Le percussioni sono l’elemento che detta i cambiamenti durante le tracce. È un gioco di sovrapposizione e giustapposizione di ‘voci’. La voce, invece, è il rifugio sicuro. C’è stato un rifugio sicuro?

Penso che esista nella mia vita, ma è una relazione difficile da coltivare. Corrisponde al cercare di trovare sicurezza, dentro di me e nella musica. Ad esempio, questa è la prima volta che canto concretamente… l’ho trovato molto utile perché è una sorta di strano punto di ancoraggio. Avere delle parti vocali relativamente calme e serene poi, permette di costruire attorno ad esse con forte intensità, sempre. È una dicotomia che caratterizza la musica pop, a tratti estrema e allo stesso tempo accettata e commerciale.

In effetti, potrei trovare un sacco di aggettivi in grado di descrivere quest’album a livello musicale, c’è un po’ di tutto: dream pop, noise, songwriting lo-fi. Ma nel complesso è genuino, immediato, per tutti. Pop. Non è un modo per minimizzarlo, anzi, è un bell’aspetto. È stata una scelta consapevole?

Sicuramente. Ascolto molta musica pop, di ogni epoca. A volte è pazzesco decostruire il tutto nei vari livelli che lo compongono. Ad esempio, gran parte della produzione dei Beach Boys, guardando alla parte emersa dell’iceberg, sembra facile, semplice. Poi inizi a scomporre, ad analizzare i vari layer, dalla produzione all’armonia. È super mentale. E un sacco di quella strana roba garage degli anni sessanta è davvero intensa, davvero complicata e davvero strana. E penso che l’idea del pop sia ingiustamente diffamata poiché essendo popolare, tutto ciò che va al di là del semplice viene trascurato, a volte in modi così strambi. Quindi sì, penso che il pop sia davvero una cosa importante per me. Mi definirei poptimista.

Una cosa che ho trovato davvero impressionante è la delicatezza con cui viene trattato il dolore. Durante l’ascolto ho sempre trovato amore e luminosità. E penso che, fondamentalmente, ci siano due modi per trattare i sentimenti tristi. Uno è tramite l’oscurità, la cupezza. L’altro riguarda appunto la luminosità, una dolce malinconia. Potrei menzionare l’ultimo album dei caroline, oppure quello dei Black Country New Road. In maniera semplicistica, può ricollegarsi all’uso di accordi maggiori o minori, ma c’è sicuramente molto di più… ha a che fare col modo in cui le persone processano le sensazioni. Nel tuo caso, perché la luce e non l’oscurità?

Molte di queste canzoni sono venute fuori di getto, in maniera quasi inconscia. Poi c’è stato questo periodo, in cui le canzoni erano quasi ultimate, e io le ascoltavo costantemente. E lì ho realizzato, e sono rimasta incredula rispetto a cosa fosse venuto fuori. Ma ripeto, penso che sia correlato al dolore. L’ho trovato emotivamente molto più complicato di quanto avrei mai potuto immaginare, nel senso che è così stratificato, così strano e cambia ogni giorno. E non si tratta solo di tristezza o perdita. È qualcosa di così lontano, come uno sconosciuto. E dunque tornano i sentimenti di empatia, sia verso me stessa che verso le altre persone. Mi sono resa conto che non avevo altro modo per affrontarlo, se non liberando il controllo. Penso che sia stato il tentativo di controllare le mie emozioni e la loro intensità, cercare di tenere tutto insieme…pensavo di avercela fatta. Ciò ha fatto crollare tutto. Mi ha costretto a guardarmi meglio. E in un certo senso mi sono sentita piuttosto fortunata che sia successo, ma d’altra parte ho dovuto affrontare qualcosa di così orribile per poi acquisire le competenze necessarie per affrontarlo. Nell’ultima traccia (The Only Way Out is Through), la grande questione corale riguarda proprio questo: far sì che tutti i miei amici circondino la mia voce con la loro. Cercare di essere aperti e seri con i propri amici e permettere loro di prendersi cura di te e di stare attenti è davvero difficile. E soprattutto quando gran parte dell’album e del processo ad esso collegato è avvenuto in maniera isolata, essere in grado di abbandonarsi all’amore, all’empatia o alla cura è davvero importante. Ho cercato di perseguire ciò sia in senso musicale, sia nella mia vita in generale.

A volte ho percepito un andamento lento e incerto, come un arrancare. Il continuo che torna ad essere discreto e il campionamento delle macchine che mi fa venire in mente l’onda tagliente e metallica di un elettrocardiogramma. Immagino come tu possa aver interiorizzato il suono delle macchine, e degli altri suoni che riguardano i tuoi campionamenti, lungo il tuo viaggio. Se ti va, ti chiederei di approfondire meglio questo processo.

Credo che il campionamento riesca a fornire degli spigoli contestuali alle cose, anche in maniera piuttosto inconscia. C’è qualcosa che proviene dagli ospedali, dovuto sia alla situazione di mio padre, sia ai miei problemi di salute di quel periodo, e all’ansia relativa alla mia salute. Parte di ciò è accaduto durante il COVID, che è ovviamente un periodo molto intenso, medicalizzato, e porta con sé tutte le conseguenze del caso. Dunque ci sono questi due fili, come sovrapposti l’uno sull’altro. Una cosa curiosa che ho sentito in interviste di altri artisti in passato, è questa sensazione di auto abbandono nelle metafore che tu stesso hai creato, intenzionalmente, inconsciamente o altro, fino a che quelle metafore esistono. Ed è un processo che continua ancora adesso, è divertente.

Mi ricorda in un certo senso Dancer in the Dark, il film. La coscienza che rielabora suoni e situazioni che stai vivendo ripetutamente, per sfuggire da esse, evitarle, ma anche accettarle e distendere la propria tensione.

Assolutamente. E la cosa bella è che non c’è stata premeditazione. Le canzoni esistevano già, e in corso d’opera, mentre stava accadendo tutto, ho inserito un po’ di campionamenti, così sul momento. È assurdo che i campionamenti esistano non come un prodotto della cosa, ma come una parte implicita di essa, creata in quel periodo. La computer music è affascinante per il suo essere così portatile, ti accompagna sempre, ed è così personale che fa parte di te, e tu di lei. Dancer in the Dark poi è fantastico, molte di quelle canzoni sono pazzesche.

Un’ultima domanda. Riguarda l’ultima canzone, e il suo nome ‘The Only Way is Through’. L’hai menzionata prima. Cosa significa per te? Come mai proprio questo titolo?

Il titolo della traccia è appunto The Only Way is Through, ma di fatto viene ripetuto una sorta una di mantra, ‘love will lead your way home’. Ci sono due livelli. Uno, letterale, credo, è collegato al fatto che stavo ascoltando davvero tanti ASMR. Parte di questi riguardava una meditazione guidata sul dolore, una cosa un po’ hippie. E questa persona continuava a ripetere ‘love will lead your way home’, così nella versione originale della canzone l’ho campionata, e l’ho intitolata allo stesso modo. In corso d’opera mi sono resa conto che mi piaceva molto l’idea di questo mantra ripetuto, che però non fosse il titolo della traccia, e anche che il titolo della traccia fosse un po’ il sottotesto del mantra stesso. In fondo era ciò che stavo cercando di ripetere a me stessa, come ho detto prima, sul dover rinunciare al controllo, sul doverti permettere di prenderti cura di te, di fare affidamento sui tuoi amici in maniera così intensa. È qualcosa che cerco davvero di applicare alle persone che mi circondano. Ad esempio, tutti coloro che hanno lavorato su questo disco dall’inizio alla fine sono stati amici personali molto intimi. Penso di aver ceduto a quella fiducia, e proprio quando ho avuto l’opportunità di mettere i miei amici, l’ho fatto…non solo perché sono miei amici, ma perché sono le persone più talentuose che conosca. E questa persona che mi predicava questo mantra nell’immediato, in un periodo doloroso, mi sembrava come l’ascoltare in maniera ossessiva le stesse tre, quattro canzoni, centinaia e centinaia di volte. L’ho campionato, e avevo la sensazione che l’ascesa della canzone fosse scricchiolante. Volevo fosse così, volevo fosse il fulcro di questa ripetizione. Quindi sì, penso che si torni proprio a questo. Si tratta di lasciar andare e cedere il controllo, ma in un modo super difficile. Molte di queste cose sono davvero facili da dire e davvero impossibili da mettere in pratica. E puoi dire a te stesso ciò che vuoi, ma a volte il tuo corpo è semplicemente da un’altra parte.

In questo senso, credo che anche il modo in cui hai collocato le tue persone nell’album non fosse studiato in maniera strategica, quanto frutto di una spontanea collaborazione. Le persone che ti circondano ti definiscono, definiscono il tuo processo e il tuo percorso. Quindi sì, penso che sia coerente.

Lo apprezzo molto. Trasferendomi a Londra, per la prima volta ho incontrato qualcuno che condividesse il mio stesso universo musicale, che sapesse di cosa cazzo stavo parlando. Molti dei miei amici fanno musica, e credo siano così bravi. Spesso mi emoziono pensando a quanto ciascuno di loro si sta dedicando a ciò, in maniera quasi malata. Londra è davvero difficile come città in cui vivere, ma adoro questo aspetto, è stupendo.

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