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Music

IN CONVERSATION WITH: HLRTY

words: Tatiana Tardio

13.05

IN CONVERSATION WITH: HLRTY

IN CONVERSATION WITH: HLRTY

Ritmo, resistenza e identità nella club culture contemporanea.

C’è un’urgenza che attraversa le produzioni di HLRTY. Un’urgenza fatta di bassline distorte, break sincopati e una tensione ritmica che non dà tregua. Ma dietro quella furia sonora, c’è una visione lucida: fare club music oggi, per HLRTY, significa abitare lo spazio della pista come luogo politico, fisico e culturale. Nato e cresciuto a Palermo, oggi di base a Bologna, HLRTY incarna una delle voci più originali e viscerali della nuova scena italiana. Il suo primo EP—intenso, minimale, sfrontato—non è solo un esercizio di stile, ma una dichiarazione d’intenti.

In questa conversazione, HLRTY ci racconta cosa significa produrre musica dalla periferia, la lezione appresa nei centri sociali, il valore del less-is-more, e l’importanza di mantenere radici forti in un’epoca in cui il club rischia di diventare un luogo senza storia. Un’intervista che è anche una riflessione sull’identità, sull’appartenenza e sulla possibilità di resistere—ballando.

La componente ritmica nei tuoi brani è spesso marcata da un uso intenso della sincopazione e di bassline destrutturate. Come pensi che queste scelte incidano sulla risposta fisica del dancefloor e sulla percezione dell’album?

Tutte le tracce del mio EP sono pensate per il dancefloor. Ogni brano rappresenta una visione personale di cosa significhi oggi fare club music. Non c’è nessuna concettualizzazione fine a sé stessa: c’è piuttosto la volontà di creare un’esperienza immersiva, capace di farti chiudere gli occhi e viaggiare all’interno della pista. Fare musica per club o festival non è semplice: non puoi mai sapere davvero come reagirà una traccia finché non la testi sul campo. Per fortuna, Sam Binga ha provato i brani per me, e abbiamo visto che funzionano. La costruzione delle tracce non è mai completamente razionale: nasce anche da un’intuizione, ma è il risultato di anni di frequentazione intensa dei club e del desiderio di creare qualcosa che io stesso vorrei ascoltare mentre ballo.

La scena club siciliana, come altre realtà periferiche in Italia, ha spesso vissuto in una condizione di marginalità rispetto ai centri più istituzionalizzati. In che modo questa ‘perifericità’ ha influenzato la tua visione artistica e il tuo modo di intendere la cultura club?

Palermo è una città complessa, ma ricca di talento: ci sono producer incredibili che continuano a creare nonostante mille ostacoli. Fare club lì è difficile, sia per motivi politici che per le caratteristiche del tessuto sociale. Le realtà che resistono lo fanno con passione, ma devono affrontare sfide continue: trovare uno spazio, costruire un pubblico, sviluppare una visione musicale coerente. Questa difficoltà però mi ha aiutato a sviluppare un’idea personale di club music, che attraversa techno, house e drum and bass. Palermo mi ha formato: nel 2013, quando ho iniziato a frequentare le serate, c’era un fermento pazzesco. Ma la città vive ciclicamente delle crisi, anche a causa della gentrificazione e dell’emigrazione costante. È un luogo di scambi, ma anche profondamente provinciale: capita spesso di suonare davanti a persone che non hanno idea di cosa accade fuori dalla città. Non è per cattiveria, è proprio una questione di mancanza di apertura. Alcune realtà, come Meeraqui, hanno costruito un’idea forte di clubbing legata ai luoghi storici della città, ma serve che più persone viaggino, si confrontino, e poi tornino con nuove visioni. Solo così si può davvero innovare, sia musicalmente che culturalmente.

Brani come “BITCH MODE” e “VENALE” mostrano un’energia essenziale ma travolgente. Cosa ti affascina del lavorare con strutture minimaliste, e quanto è una scelta musicale consapevole?

“Venale” e “Bitch Mode” sono tracce di una semplicità devastante. Ne ho parlato a lungo con Sam: io ho sempre avuto il timore di dover aggiungere elementi, di dover complicare i brani per dargli una struttura. Invece siamo tornati a un concetto antico ma attualissimo: less is more. Meglio pochi elementi curati con attenzione che una sovrastruttura confusa e priva di direzione. Per me tutto ruota intorno al controllo assoluto di ogni elemento. E per controllo intendo la capacità di farlo vivere nel modo giusto. È un lavoro complesso: quando hai pochi strumenti, devi farli funzionare alla perfezione, lavorare molto sulla ritmica e sulla dinamica. Ma è proprio questa la forza. La maggior parte delle produzioni anni ’90 funzionava così: pensa a DJ Deeon o al sound americano di quel periodo—bastava una 909 e un vocal tagliato bene per creare una bomba. Nel mio EP c’è un po’ di tutto, ma c’era anche il bisogno di tornare a quella visione minimalista, potente, moderna.

Nella tua musica convivono elementi di Acid Rave, Jersey Club e influenze UK, ma con un twist tutto tuo. Come riesci a mantenere l’equilibrio tra sonorità del passato e innovazione personale?

Non so nemmeno io come riesco a far convivere così tante esperienze in un unico EP. L’inconsapevolezza, come dicevo, è parte del processo. Ma ho dentro di me un universo di esperienze musicali e umane che voglio far emergere in ogni traccia. In “Ansiogeno”, ad esempio, tutto si fonde in modo coerente, anche se al primo ascolto può sembrare folle. Ma lì dentro c’è tutto quello che ho vissuto in questi anni: la drum and bass, il clubbing, le notti con Ethik, Stoner, Coido e gli altri. Questo progetto per me è libertà totale. Non è una questione di genere, ma di esperienza. Mi definisco più un artigiano che un producer: prendo un pezzo di legno e lo scolpisco fino a dargli una forma. Così costruisco le tracce. Più esperienza hai, più riesci a modellare con naturalezza. E se guardi il mio setup, capisci tutto: due casse e un computer. Una volta pensavo che servissero mille strumenti per fare musica. Ora so che bastano le idee—e la capacità di metterle insieme.

Il club come spazio fisico ha subito una forte crisi, soprattutto post-pandemia, ma rimane centrale nella costruzione di comunità. Qual è oggi, secondo te, il ruolo sociale e culturale della pista da ballo, e pensi la tua musica sia pensata per determinati tipi di dancefloor o contesti specifici (piccoli club sudati, grandi warehouse, festival open air)?

La mia musica è pensata sia per il club che per i festival. Non ho una preferenza netta: d’inverno vivo il club, d’estate mi affascina di più la dimensione dei festival. Dopo la pandemia, il club ha assunto nuove forme, ma resta uno spazio fondamentale, soprattutto per creare comunità. Sono cresciuto nei centri sociali: ASK191 a Palermo, ad esempio, è stato cruciale per me. Lì ho scoperto la bass music, lì ho sentito per la prima volta cosa significa davvero un impianto che suona. Quelle serate—organizzate da Dubstep Palermo e DnB Attack—erano pura socialità. Amo il Link di Bologna, impazzisco per il Leoncavallo a Milano. Sono spazi dove puoi vivere bene, ascoltare musica nuova, incontrare persone senza pressioni. In generale, la domanda che mi pongo è: vogliamo continuare a fare musica fine a sé stessa o vogliamo ricostruire spazi di socialità autentica? Io sto con chi costruisce luoghi vivi, attivi tutto l’anno. Il Link, con la sua radio e i progetti della Link Academy, o il Leoncavallo, che propone attività settimanali, sono esempi da proteggere. Inoltre ho la fortuna di far parte dell’agenzia Nique Booking: lì ho incontrato persone che vivono la musica con passione e autenticità, in un ambiente dove spesso invece si corre dietro alle mode. Nique ha un approccio umano, fatto con il cuore. Ed è questo, per me, il vero valore.

In un’epoca di globalizzazione digitale, quanto pensi che sia importante mantenere una radice territoriale e culturale forte nella propria musica, e quali rischi vedi nell’omologazione globale del suono club?

Per me, la musica è vita. Vivere a Palermo non è come vivere altrove: il tessuto sociale è diverso, i club sono pochi. Ogni mia produzione è lo specchio di questo percorso. È difficile non omologarsi, mantenere una voce personale in un mondo saturo di uscite spesso senza identità. Io ci provo, e spero che il messaggio arrivi. Ora vivo a Bologna, mi sto confrontando con nuove realtà, ma per me resta fondamentale portare con me il territorio da cui vengo. La musica dev’essere riconoscibile, anche nei DJ set. Sto lavorando molto su questo, ma è un lavoro che si fa sul campo. La musica è identità. E se parliamo di identità, non posso non raccontare che sono cresciuto tra i CD di musica classica di mio padre e la neomelodica dei quartieri popolari, con i suoi toni arabeggianti. E intanto, ascoltavo punk e drum and bass. Se questa non è esperienza, allora non so cosa lo sia.

Ganzo EP è disponibile su BANDCAMP

<a href="https://pineapplerecords.bandcamp.com/album/hlrty-ganzo-ep">HLRTY – GANZO EP by HLRTY</a>

ph: Mattia Acito

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