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Music

IN CONVERSATION WITH: HANS ARSEN

words: Nicola Sabatini

24.03

IN CONVERSATION WITH: HANS ARSEN

IN CONVERSATION WITH: HANS ARSEN

Il 14 febbraio è uscito uno degli album più interessanti di questo inizio di 2025: Ghost to Ghost di Hans Arsen.

Un disco fuori dagli schemi, uscito proprio nel pieno del Festival di Sanremo e ideato da un artista che ha scelto di non avere profili social ufficiali. Dettaglio che già suggerisce come Hans Arsen, cantante, MC e producer italo-congolese con base a Barcellona, possa portare una ventata di freschezza nel panorama musicale.

Brano dopo brano, Ghost to Ghost conferma e amplifica questa impressione.

L’album, composto da 13 tracce, è un concentrato di forza emotiva e ricerca artistica, non forzata, ma rivolta verso un obiettivo semplice e ambizioso: creare un sound capace di sfondare le pareti ammuffite che dividono i generi musicali, regalando alla propria musica spazi ben più capienti, un grande attico tanto liminale quanto luminoso.

La decostruzione e la libera reinterpretazione di sonorità spesso lontane tra loro è, non a caso, uno dei fili conduttori dell’album, che – grazie alla cura dei dettagli e a un sorprendente equilibrio sonoro – ci invita a stare al gioco, senza mai rivelare completamente le proprie origini e intenzioni.

Ispirato da esperienze personali intense, Ghost to Ghost apre una conversazione diretta con l’ascoltatore senza mai offrire riferimenti espliciti: l’uso della voce in molteplici sfumature, la scelta di diverse lingue per i testi e i beat – a tratti minimali e a tratti più aggressivi, ma sempre terribilmente ipnotici – colpiscono nel segno sia a livello musicale che emotivo.

Il risultato? Un disco che si fa sentire tutto d’un fiato, impossibile da non ascoltare fino in fondo.

In questa intervista, Hans ci ha raccontato l’ispirazione dietro Ghost to Ghost, il significato delle sue scelte artistiche e il suo amore per la musica, al di là di ogni genere.

Ghost to Ghost ha un sound minimalista ma intenso, che sembra trascinare l’ascoltatore dall’altra parte dello specchio. Che tipo di viaggio hai voluto creare con questo album?

Sicuramente c’è la volontà di regalare un vero e proprio viaggio all’ascoltatore, permettendogli di dare un’interpretazione personale e creare una connessione con il disco, al di là di quello che io ho vissuto e inserito nei brani.

Ad esempio, cerco di confondere un po’ le parole, senza dare una chiarezza definitiva ai testi, proprio per lasciare spazio a questa esperienza soggettiva. Uso diverse lingue, ma nessuna in modo del tutto corretto. In realtà, le parlo tutte fluentemente, ma scelgo di non utilizzarle in modo convenzionale.

Il mio obiettivo è arrivare a creare un linguaggio metamorfico, in continua evoluzione, che non sia mai del tutto comprensibile. Voglio che chi ascolta possa percepire il significato attraverso le vibe, intuire qualche parola qua e là, ma senza avere una definizione chiara. In questo modo, mantengo viva la libertà di interpretazione.

Ogni traccia di Ghost to Ghost ha un’intensità emotiva palpabile. Cosa rappresenta per te questo album a livello personale e artistico?

Ghost to Ghost è un po’ come un’auto-sepoltura. Nei momenti di cambiamento e crescita, credo che tutti, in qualche modo, lasciamo andare una parte di noi stessi, quasi come se la seppellissimo, per poi abbracciare una nuova versione di noi che, in realtà, è sempre stata lì, solo che tendiamo a ignorarla.

Questo album rappresenta proprio questo per me: un rito di passaggio, una sepoltura simbolica del mio vecchio io e, allo stesso tempo, l’accoglienza di un me stesso che già conoscevo, ma che dovevo ancora esplorare davvero. In una parola, è una sorta di metamorfosi.

La voce è centrale in Ghost to Ghost: a volte distorta, altre più melodica, spesso in lingue diverse. Come hai lavorato sui vocals e che ruolo hanno avuto nella costruzione dell’album?

Io parto dal fatto che sono prima di tutto un cantante. La produzione è un aspetto che sto sviluppando ora: ho iniziato a produrre circa due anni fa, proprio lavorando su questo disco. Per questo motivo, le voci sono la pietra angolare di tutto il progetto. Mi sono basato molto sulle melodie che avevo in testa da tempo e sui testi che stavo scrivendo in quel periodo.

Ho adottato un approccio particolare, quello del one take: mi metto al microfono e cerco di registrare tutto in un’unica ripresa, senza rilavorare troppo sul momento. Ovviamente, in fase di post-produzione il lavoro cambia, ma cerco comunque di mantenere la purezza del sentimento. Anche se il testo e la melodia sono elaborati, voglio che l’esecuzione rimanga il più pulita e autentica possibile.

Spesso inizio sviluppando una melodia senza parole, registrandola così com’è. Poi costruisco il beat attorno a questa melodia e, una volta ottenuto uno scheletro del brano, passo al one take, ovvero una prima registrazione vocale senza correzioni o sovraincisioni. Da lì, inizio a lavorare sulla traccia, montando e strutturando il brano attorno a quella registrazione spontanea.

A volte è più difficile, perché alla prima registrazione potresti accorgerti di piccoli dettagli che vorresti correggere o perfezionare. Però, una volta che hai delineato lo schema generale del pezzo, puoi iniziare a lavorarci su con più consapevolezza. Solo raramente capita di doverla rifare: spesso lascio un one take originale perché mantiene una freschezza e una sincerità che altrimenti rischierei di perdere con troppe revisioni.

Quindi, dal punto di vista creativo la melodia è il tuo starting point?

Sì, principalmente sì. Spesso ho in testa melodie che non devono per forza essere vocali, ma possono nascere da strumenti come il pianoforte, la chitarra o il basso. Dipende molto dallo strumento che ho tra le mani in quel momento o, ancora di più, da come mi sveglio.

Il mio processo creativo è molto istintivo: alcune mattine mi sveglio con una melodia in testa e sento il bisogno di buttarla giù subito. Non sono una persona schematica, non seguo sempre lo stesso procedimento per ogni traccia. Ogni volta è diversa, ed è proprio questo che rende ogni pezzo unico.

Detto questo, a volte riutilizzo approcci già sperimentati in passato. Non sempre c’è bisogno di inventare qualcosa di completamente nuovo. Se un metodo ha funzionato bene, posso riprenderlo, farlo evolvere e adattarlo al nuovo brano.

Ghost to Ghost ha richiami al trip hop anni ‘90 e qualcuno l’ha definito lo-fi R&B, ma il tuo sound sembra sfuggire a qualsiasi etichetta. Quali influenze ti hanno guidato nella costruzione della tua identità musicale?

Sfuggire a qualsiasi etichetta è proprio quello che voglio.

Questo è forse l’aspetto più fondamentale del progetto: il rifiuto di essere categorizzato. Non voglio che la mia musica venga incasellata in un genere specifico. L’idea di essere boundless, senza confini, è un elemento essenziale su cui si basa l’intero progetto.

Per quanto riguarda le mie influenze, sono molto diverse tra loro e non seguono un filo logico, soprattutto a livello sonoro. Non c’è una continuità o una storia univoca che le lega.

Ci sono però alcuni artisti che mi influenzano da sempre, sin dai miei primi approcci alla musica sperimentale – che per me, in realtà, non è poi così sperimentale, perché è semplicemente il mio modo di viverla. Uno di questi è Corbin, aka Spooky Black, un cantante e produttore della scena underground R&B americana, con un approccio molto sperimentale.

Un’altra grande influenza è Keaton Henson, compositore noto soprattutto per la sua musica contemporanea con elementi classici. Il suo modo di lavorare mi ha influenzato molto, soprattutto per quanto riguarda il sound design e la composizione vocale. Il suo progetto si chiama Behaving e Mi ha ispirato nell’uso della voce non solo come elemento melodico, ma anche come vero e proprio strumento ritmico, come beat.

È vero, hanno livelli di profondità molto differenti, ma per me sono ugualmente fondamentali, non solo dal punto di vista artistico, ma anche umano. Mi hanno aiutato a esplorare nuove dimensioni di me stesso e a sviluppare una percezione più ampia del mondo esterno.

L’ambiente musicale di Barcellona e le tue radici italo-congolesi hanno influenzato in qualche modo il tuo sound?

Stare a Barcellona negli ultimi due o tre anni, anche se ultimamente faccio un po’ avanti e indietro con l’Italia, è stato fondamentale per la mia crescita, sia personale che artistica. Questa esperienza ha avuto un impatto decisivo su tutto il mio progetto, non solo su Ghost to Ghost, ma anche su quello che sto sviluppando in generale. Frequentare certi ambienti e, in un certo senso, essere un membro esteso del Jogo Collective di Barcellona mi ha aiutato a definire ciò che sono oggi. Diciamo che faccio parte di questo collettivo, anche se preferisco non legarmi troppo a un’identità collettiva in modo formale.

Ghost to Ghost è un album senza featuring, una scelta controcorrente. Perché questa decisione? Come vivi le collaborazioni musicali in generale?

Sì, in Ghost to Ghost non ci sono collaborazioni ufficiali, anche se in realtà c’è una traccia in cui, più che un vero featuring, si è trattato di un flusso nato spontaneamente con un mio coinquilino a Barcellona.

Non è stata una scelta deliberata, quanto piuttosto una questione di circostanze. Mi piacerebbe iniziare a collaborare con altri artisti e integrare più voci nei miei brani, ed è qualcosa su cui sto lavorando. C’è già qualche progetto in cantiere, ma è un passo che, in un certo senso, mi spaventa ancora un po’. Ci sto arrivando gradualmente.

Per me le collaborazioni sono importanti, anche se finora ho lavorato spesso con le stesse persone. Una delle collaborazioni più frequenti è con Mama Matrix, una carissima amica con cui faccio anche molto da MC. È una delle persone con cui ho collaborato di più a livello vocale, e nei nostri lavori la sua voce è presente tanto quanto la mia.

Ci sono anche altri artisti con cui sto iniziando a lavorare, ma è ancora tutto un work in progress. In ogni caso, è una questione di connessione con la persona con cui sto lavorando. Non ho una linea guida fissa per scegliere le collaborazioni: dipende molto dalla sintonia che si crea nel momento.

Anche nei miei lavori solisti è sempre tutto guidato dall’energia del momento. Preferisco lasciar fluire le cose senza forzarle. La musica, per me, è come un seme: quando la componi e la scrivi, stai piantando qualcosa. Poi, quando la pubblichi, è come se quel seme diventasse una pianta che esponi prima a te stesso e a chi ha lavorato con te. Una volta che il brano è fuori nel mondo, torna a essere un seme, ma stavolta per gli ascoltatori, che gli daranno un nuovo percorso e nuove interpretazioni.

Per questo cerco sempre di non forzare il processo creativo: lascio che cresca come deve, dando solo l’input necessario, come se stessi annaffiando una pianta. Il resto lo fa l’ambiente, l’energia, e tutto ciò che c’è intorno.

Ghost to Ghost è uscito durante il Festival di Sanremo, quasi una dichiarazione d’intenti.

Onestamente, non mi importa di queste cose. Il progetto ha un altro obiettivo. Non ho neanche pensato a Sanremo quando abbiamo deciso la data di uscita, e credo che nemmeno il team con cui lavoro l’abbia fatto. Anche fossi uscito lo stesso giorno di Kendrick Lamar, non ne farei un problema.

Quando pianifichiamo un’uscita, ci si preoccupa di altro: magari evitare che un altro artista del roster pubblichi nello stesso giorno, ma finché non è una questione interna alla label o al team, le mie scelte rimangono libere e senza ‘strategie’.

Ho provato a cercarti sui social, ma non ho trovato molto. C’è un motivo dietro questa scelta?

Sì, è una scelta consapevole. Crescendo, ho imparato a conoscere meglio me stesso e il mio modo di rapportarmi con il mondo, sia a livello personale che comunitario. Ho capito che per il mio equilibrio mentale ho bisogno di stare lontano dalla dinamica continua dei social. Preferisco concentrarmi sulla mia vita privata piuttosto che sulla condivisione costante online.

A dire il vero, mi considero quasi un boomer sotto questo aspetto… Passo molto tempo a guardare anime e a leggere; quindi, spesso mi dimentico dell’esistenza stessa dei social. Ma al di là di questo, è stato un processo graduale: negli ultimi quattro anni mi sono progressivamente chiuso agli occhi del mondo digitale.

È qualcosa che mi aiuta anche a livello creativo, perché mi permette di filtrare meglio le influenze esterne. Non voglio essere trascinato passivamente dalle tendenze. Questo non significa che non mi interessi vedere cosa fanno gli altri: anzi, trovo affascinante osservare i percorsi individuali delle persone.

Mi piace guardare “da fuori” senza farmi condizionare troppo dalla grande strada che tutti sembrano percorrere. Per me è importante trovare ispirazione negli individui, piuttosto che nelle mode collettive.

E non parlo solo dal punto di vista creativo, ma anche umano. È fondamentale sapersi muovere in una comunità, ma anche saper stare da soli con sé stessi. Non sempre avremo qualcuno accanto a sostenerci nei momenti difficili, ed è qualcosa che l’atto creativo mi ha insegnato molto.

Per Hans Arsen, qual è il palco ideale? E dove ti porterà il tour?

Non ne vedo uno perfetto. Per me il palco ideale è qualcosa di mutevole, che si adatta e si trasforma in base alla situazione in cui la musica viene inserita. Non penso che il progetto Hans Arsen appartenga a un unico tipo di contesto o di pubblico: lo vedo aperto a tutti gli scenari uditivi possibili.

Per il momento, ho un live in programma l’8 marzo a Parma e un altro il 2 aprile a Combo, Milano.

Il disco è appena uscito e, come dicevo prima, è ancora un seme che deve crescere e portare i suoi frutti. Ci vuole tempo e pazienza, soprattutto non avendo ancora un booking che possa gestire e organizzare concerti in modo strutturato. Per ora, mi baso sulle opportunità che arrivano.

Ovviamente, mi piacerebbe molto organizzare un tour, non solo in Italia ma anche a livello europeo. È un obiettivo che spero di concretizzare nei prossimi mesi. Non so se accadrà subito, ma sicuramente voglio portare il progetto dal vivo il più possibile.

Dopo Ghost to Ghost, dove pensi che ti porterà la tua musica? Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?

Per me la musica è un modo per restare connesso con me stesso e crescere, non solo artisticamente, ma anche come persona. È il mio modo di comunicare, di elaborare ciò che vivo.

Per questo creo costantemente, quasi tutti i giorni. Non necessariamente qualcosa che finirà in un progetto ufficiale, ma ho sempre bisogno di scrivere, comporre, sperimentare. A livello musicale, è un flusso continuo di lavoro.

Per molto tempo sono rimasto nell’ombra, senza espormi troppo. Ora sento il bisogno di farlo, anche solo “mostrando una caviglia” al mondo, per usare una metafora.

Vediamo cosa succederà!

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