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Music

IN CONVERSATION WITH: GO DUGONG

words: Davide Urbani

“Madre”, a pray to Mother Nature

02.01

IN CONVERSATION WITH: GO DUGONG

IN CONVERSATION WITH: GO DUGONG

Lo scorso 8 novembre il produttore italiano Giulio Fonseca, in arte Go Dugong, ha pubblicato il suo nuovo album Madre, in collaborazione con il musicista venezuelano Washé. Un disco composto fra Caracas e la foresta amazzonica dal quale parte un viaggio che esplora il profondo contatto dell’uomo con la natura, avvalendosi di mezzi e strumenti tipici della tradizione indigena venezuelana.

Giulio è un artista che sin dall’inizio del suo percorso ha saputo spaziare fra diversi generi, sia con il suo progetto solista che in gruppo, dimostrando una sensibilità culturale e una padronanza musicale che convergono e di certo si sentono in questo suo ultimo lavoro. Un continuum concettuale del percorso iniziato con TRNT e Meridies, nel quale l’oggetto d’interesse era la tradizione culturale tipica dei paesi del sud Italia. Questa costante passione di carattere antropologico verso tradizioni e folklore nel tempo si è evoluta fino ad uscire dai confini del nostro Paese e, sfruttando la musica come canale di comunicazione globale, è arrivata nella foresta amazzonica, senza mai tradire lo scopo iniziale, ovvero la ricerca verso culture differenti e l’amore per queste ultime.

In occasione di quest’uscita ho avuto modo di fare una conversazione con Giulio sul suo disco, su quanto successo durante il suo viaggio e su come è stato trovarsi a contatto con una natura dalla potenza alla quale di certo non siamo abituati.

D: Allora, guarda, domanda iniziale, giusto per scaldarsi. Ti chiedo di parlarmi di Madre, dell’album, del concept che c’è dietro, di come è nata l’idea legata al disco e del viaggio nella foresta amazzonica che ne consegue. E anche a proposito di questo, il tuo rapporto con la natura, con l’esplorazione. Qual è il feedback che ti dà un ambiente del genere?

G: Il disco è frutto di una residenza artistica durata un mese tra Caracas e l’amazzonia venezuelana, insieme al musicista venezuelano Washé. Il tutto è stato organizzato da Hape Collective, che è un collettivo che si propone di organizzare scambi culturali e artistici tra musicisti e artisti provenienti da diverse parti del mondo. Avevo già collaborato con loro in passato; mi avevano invitato a fare un’altra residenza in Chad, in Africa. Quella volta il mio contributo è stato un po’ diversa: sono stato più uno “strumento” a disposizione per le persone di lì. Nel senso che ho fatto dei workshop, ho insegnato ai ragazzi a utilizzare Ableton e ho aiutato una band a preparare il suo live per un tour africano.

D: Quindi questa è stata la seconda residenza.

G: Esatto. Mi hanno chiamato per questa residenza in Venezuela, perché era appena nata la “costola venezuelana” di Hape Collective a Caracas grazie a Simone (Simbo) uno dei fondatori. Simone aveva conosciuto Washé (Carlos Conde), ed era stato molto colpito dalla sua ricerca. Da più di vent’anni Carlos è un ricercatore di musica indigena venezuelana, colleziona e suona strumenti e indaga sul loro utilizzo rituale. Nel frattempo, conosceva me e la mia ricerca, sapeva che da diverso tempo stavo esplorando gli strumenti tradizionali del mio paese, soprattutto del sud Italia. Così ha pensato che fossimo due anime affini dal punto di vista artistico e ha voluto farci incontrare e passare del tempo insieme.

D: Da lì sei partito, sei andato a Caracas, e hai incontrato Carlos. Come è andato l’inizio del lavoro?

G: Esatto. Sono andato a Caracas, ho incontrato Carlos e abbiamo iniziato questa residenza. Ci siamo trovati in studio, provando a suonare insieme, cercando di capire cosa potessimo apportare l’uno all’altro musicalmente e artisticamente. C’è stata una prima fase di sperimentazione e improvvisazione per scaldarci. Successivamente abbiamo deciso di fermarci e pensare a cosa volevamo raccontare con la musica che stavamo per fare insieme. Per me è una cosa abbastanza fondamentale: quando hai un foglio di carta bianca e devi disegnare qualcosa, devi avere un’idea, devi sapere cosa disegnare, altrimenti farai solo scarabocchi. Io cerco sempre di avere qualcosa da cui partire, un’idea o un’estetica particolare.

Da lì è venuto molto naturale affrontare il tema della natura, perché tutti gli strumenti suonati da Carlos provengono da lì. Sono tutti fatti con elementi naturali, come teschi di animali, legno, conchiglie, semi, ecc. Anche il suono che emettono questi strumenti richiama suoni presenti in natura: il vento, le rane, alcuni uccelli. Così abbiamo deciso di confrontarci sul nostro approccio alla natura. I primi due pezzi che abbiamo fatto insieme sono “Agua” e “Tierra”. Quest’ultimo all’inizio era stato concepito come un brano unico, poi è stato suddiviso in due: una parte per l’intro e l’altra per l’outro. È stato registrato tutto insieme, praticamente “buona la prima”. Sono pezzi poco ritoccati, molto liberi e astratti anche se studiati con una struttura ben precisa. Per esempio per Tierra abbiamo immaginato il suolo e lo abbiamo disegnato, partendo dallo strato più superficiale fino ad arrivare al magma che ribolle. Abbiamo usato questo disegno come spartito, cercando di musicare ogni strato. Il disegno è stato la guida per comunicare meglio e riuscire a trasmettere quella che era la nostra visione.

Ma la cosa più interessante è stata, appunto, quando durante le nostre discussioni e confronti sul nostro approccio, su come vediamo la natura, su come percepiamo la natura, a un certo punto ci siamo detti: “Ok, stiamo parlando di selva, stiamo parlando della selva amazzonica. Ora però siamo a Caracas, in città. Perché non andiamo in Amazzonia per immergerci completamente nella selva, così da riuscire a trasferire in questo disco qualcosa che si avvicini il più possibile a quel tipo di energia?”

E quindi siamo partiti in macchina da Caracas e abbiamo attraversato quasi tutto il Venezuela, fino ad arrivare al punto di approdo dell’Amazzonia venezuelana, che è Puerta Ayacucho. Da lì abbiamo incontrato i nostri contatti e siamo stati ospiti di diverse comunità indigene, dove abbiamo potuto fare ricerca sia sugli strumenti, sulla cultura, e siamo stati guidati in luoghi energeticamente davvero molto potenti dove suonavamo e registravamo cercando un’interazione con l’ambiente circostante…

D: E quanto siete stati?

G: Praticamente un paio di settimane. Poco tempo ma che ha lasciato un segno profondo nelle nostre vite. Sono successe cosi tante cose che potrei quasi scriverne un libro.

D: Penso che essere in un ambiente così selvaggio ti faccia rendere conto di quanto effettivamente il contatto con la natura sia importante…

G: Ovviamente il primo impatto è bello tosto, perché non si è abituati. Ti trovi in un posto che è inospitale per noi, mentre per le comunità indigene che ci vivono è diverso: loro sono totalmente in simbiosi con ciò che li circonda. Anzi, loro si definiscono proprio come i “guardiani di madre natura”. Realizzi che l’essere umano, la tipologia di essere umano che noi siamo, è nato e cresciuto nel cemento, nelle città, con uno stile di vita molto differente da quello di chi vive nella selva. Siamo ormai completamente distaccati da quel legame prezioso, istintivo e ancestrale che dovrebbe esserci con la natura.

D: Sì, si dovrebbe essere interiorizzata…

G: Sì, ma l’abbiamo persa, non la coltiviamo più o poco. Però credo sia un istinto che può essere risvegliato in modo molto rapido.

D: A proposito di questo, il disco attraversa tre fasi del risveglio: dissonanza, sfida e simbiosi. Mi piacerebbe approfondissi un po’ questo discorso per comprenderlo al meglio.

G: Come ti dicevo prima, l’impatto iniziale con quel luogo è faticoso ed quello che noi abbiamo chiamato “dissonanza”. É un luogo in cui devi stare molto attento e vigile perché è un gioco la tua vita. Devi attivare al massimo e espandere tutti i tuoi sensi. Poi c’è la fase di lotta, quella in cui il tuo corpo deve riuscire a sopravvivere e il tuo sistema piano piano si adatta. Nella selva non dormi in una casa, dormi per terra in tenda o su un amaca, sei sempre esposto a qualsiasi creatura o elemento naturale, animali, piante, acqua e fenomeni atmosferici. Non ci sono bagni, la mattina ti svegli e ti lavi nel fiume, segui il ritmo del sole. È proprio un modo diverso di vivere la routine e in qualche modo il tuo corpo e la tua mente iniziano a reagire a questa cosa. Poi arriva la fase di simbiosi, che è la fase in cui ti senti integrato, a tuo agio con l’ambiente circostante. A quel punto ti rendi conto che cominci a percepire una connessione particolare con quel luogo e una certa energia. Diventi parte di un tutto, mentre prima eri solo un intruso, un elemento esterno di passaggio in un luogo non familiare. Ho una visione molto herzoghiana di quest’ambiente: è violento, crudo e spietato ma nello stesso tempo meraviglioso.

D: E comunque, alla luce di ciò che mi hai appena detto e del tuo percorso personale, che è stato molto vario, volevo chiederti quale è il tuo rapporto con l’ignoto e con l’esplorazione di quest’ultimo come mezzo creativo. Come ti approcci a ciò che non conosci visto che ci sono stati così tanti stimoli differenti?

G: È la curiosità verso ciò che conosco poco che mi affascina e sono molto attratto dalle tradizioni del mondo. Mi piace scavare, andare a fondo nelle tradizioni e capire da dove arrivano. A volte sono partito da alcune letture di saggi di antropologia che mi hanno ispirato.

D: Quindi, praticamente, nel tuo modo di creare c’è un approccio più da ascoltatore e da fruitore di qualcosa che ti faccia partire la scintilla creativa.

G: Sì, assolutamente. A differenza di quello che fa un “musicista canonico”, non parto quasi mai dal suonare, non è il mio punto forte. Sono più uno che si appassiona a un concetto o a una storia. Mi sono concentrato più sul modo di ascoltare la musica che sul suonare uno strumento. Lo faccio da quando sono nato e, quando sento qualcosa di speciale, il mio ascolto si fa molto profondo. Il mio cervello automaticamente tende a scomporre e analizzare tutti arrangiamenti che compongono quel brano, la sua struttura e in che modo questi elementi agiscono su di me suscitando diverse emozioni. In fase creativa ho bisogno di partire da un’idea, da un concetto, da un film, da un libro, da una foto, insomma qualcosa che mi ispiri, che può essere anche un’emozione forte. Da lì parte lo studio su come tradurre questa idea in musica. Questo mi viene molto più naturale rispetto al mettermi a suonare con la testa vuota cercando un buon giro di accordi.

D: Interessante. Ti volevo anche chiedere come sei riuscito, in fase di produzione, a far coesistere strumenti che rappresentano in tutto e per tutto la concretezza della natura e la tradizione con la componente molto più eterea dell’elettronica.

G: All’inizio non è stato facilissimo perché gli strumenti indigeni hanno un’intonazione tutta loro. Il mio approccio è stato quello di non snaturare il loro suono originale, quindi ho intonato e adattato tutto il resto. Ho notato che tutto mi suonava molto meglio accordando a 432 Hz, che guarda caso dicono sia la frequenza della Terra e della natura (a differenza dello standard che è 440 Hz). È stato molto interessante cercare questa intonazione tra la componente digitale e quella analogica degli strumenti naturali.

D: Com’è il tuo approccio al field recording? Registri il suono e poi pensi a come utilizzarlo, quindi crei un archivio da cui attingere? O c’è un ascolto profondo dell’ambiente che ti circonda e dici: “Ok, questo suono mi suscita questa emozione, lo posso usare”?

G: Entrambe le cose, una non esclude l’altra. Ho registrato alcune cose con un chiaro intento, perché le volevo inserire in pezzi che avevamo già sviluppato a Caracas. Quando siamo andati nella selva, ho detto: “Voglio registrare questa cosa perché la voglio mettere in quel pezzo”. Altre volte, invece, ho registrato senza avere un’idea precisa, mettendo solo il microfono e vedendo cosa succedeva.

D: Quanto è importante per te avere delle collaborazioni, come quella con Gerry Weil e Miguel Noya nel disco? È una questione legata al voler far conoscere e diffondere nuove culture e visioni musicali?

G: È una cosa che amo fare da sempre. Faccio tanta ricerca e mi piace condividerla quando mi capita di ascoltare qualcosa di speciale. Abbiamo scelto due artisti italiani e due venezuelani, più un ospite “jolly” che è Simbo che è anche il fondatore di Hape e la mente da cui nasce l’idea della residenza. È stato naturale chiamare Gerry Weil e Miguel Noya, perché sono persone con cui Carlos ha un certo legame da tempo. Ho avuto modo di incontare Miguel Noya a Caracas e intrattenermi con lui in conversazioni molto interessanti. Ho conosciuto anche Gerry Weil e ho avuto il piacere di improvvisare un set insieme a una festa molto bella in spiaggia ad Anare, vicino Caracas. Sfortunatamente qualche settimana fa Gerry ci ha lasciato, all’età di 85 anni. È un onore avere un suo contributo nel disco. Il pezzo realizzato con lui è uno dei miei preferiti e descrive la fase di armonia con la natura, quell’ultima fase di cui ti parlavo prima. Quindi per me ha un valore emotivo enorme. Gerry è stato un musicista straordinario, una forza della natura, una persona che di sicuro ha lasciato un segno.

D: Per quanto riguarda gli ospiti italiani invece?

G: Mi è venuto molto naturale coinvolgere Clap! Clap e Khalab. Siamo amici e ci conosciamo da una vita e ho pensato che avrebbero avuto la sensibilità giusta per dare il loro contributo su questo tipo di materiale.

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