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Art

IN CONVERSATION WITH: fuse*

words: Mariam Ndiaye

30.10

IN CONVERSATION WITH: fuse*

IN CONVERSATION WITH: fuse*

L’arte è una dimensione di espressione umana, ma anche uno spazio di ricerca che ci permette di investigare scenari possibili valicando i limiti razionali del metodo scientifico. Da questo incontro tra pensiero creativo e analisi nascono riflessioni che – nell’immaginare il futuro – ci permettono di acquisire consapevolezza sul nostro presente.

Una delle realtà italiane che dà forma alla sua disciplina muovendosi in questo spazio liminale tra arte e scienza è fuse*, studio artistico che dal 2007 si occupa di “esplorare il potenziale creativo delle tecnologie contemporanee e la loro profonda influenza sul modo in cui viviamo, pensiamo e ci relazioniamo con il mondo”.

Abbiamo avuto l’occasione di approfondire con loro una delle opere più recenti della loro esplorazione artistica, Mimicry (2025): un progetto speculativo sull’intersezione tra piante e insetti generato con il contributo dell’intelligenza artificiale. Una metafora suggestiva sulle strategie di adattamento ed evoluzione del regno naturale in vista dei cambiamenti ambientali che il pianeta sta attraversando.

Mimicry sembra proporre un’idea di ambientalismo che supera la centralità dell’uomo, accettando la traiettoria evolutiva del mondo naturale senza imporvisi. Possiamo leggere l’opera come un esercizio di decolonizzazione del nostro rapporto con la natura?

Sì, questa lettura è corretta. L’opera nasce da una prospettiva ecosofica, ispirata alla deep ecology, che cerca di ribaltare lo sguardo antropocentrico. L’essere umano è visto come parte di un ecosistema più ampio, non al suo vertice, offrendo una prospettiva post-umana: un invito a decentrare l’uomo e ad aprirsi a visioni di coesistenza multispecie che hanno in sé un potenziale di emancipazione e rigenerazione.

Attraverso le forme ibride tra piante e insetti, generate come metafore delle strategie di adattamento della natura, il lavoro mette in scena l’idea che la natura non abbia bisogno di essere “guidata” dall’uomo, ma continui a trovare soluzioni inedite di convivenza e sopravvivenza anche di fronte ai cambiamenti climatici e alle pressioni ecologiche che noi stessi generiamo.

In questo senso, Mimicry propone un’immaginazione radicale: non si tratta di salvaguardare la natura perché utile o “bella” ai nostri occhi, ma di accettare la sua traiettoria evolutiva come qualcosa che ci oltrepassa, che non richiede il nostro consenso. Le creature mostruose e ibride che emergono, quindi, sono simboli di questa riconfigurazione: abitano zone di transizione, sfidano le categorie identitarie e ci costringono a ripensare il nostro posto nel mondo, come suggerisce anche Donna Haraway (The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others, 2023) parlando dei “mostri” come figure che destabilizzano narrazioni culturali e scientifiche consolidate.

L’uso dell’Intelligenza Artificiale in “Mimicry” non appare come semplice sperimentazione tecnologica, ma come scelta coerente con la volontà di decentralizzare l’agente umano nel processo creativo. L’AI è stata pensata come un vero e proprio “agente esterno” che partecipa alla costruzione dell’opera?

In Mimicry l’intelligenza artificiale non è intesa come un mero strumento tecnico, ma come un agente esterno che partecipa alla generazione di forme di vita imprevedibili. Abbiamo scelto di affidarle un ruolo autonomo, proprio perché volevamo spostare l’asse del processo creativo dal controllo umano alla possibilità di co-creazione con sistemi non-umani.

Così come la natura inventa soluzioni evolutive attraverso processi casuali e non lineari, l’AI ci ha permesso di simulare traiettorie che non avremmo potuto progettare razionalmente, generando entità che ci sorprendono e ci obbligano a ridefinire i nostri criteri estetici.

Abbiamo sfruttato questa caratteristica dell’AI per creare un dispositivo narrativo che cerca di mettere in discussione il nostro sguardo e decentra l’uomo come unico motore creativo.

Dove si colloca il confine tra l’intervento dell’AI e quello umano? La definizione di questo equilibrio è stata parte integrante della riflessione concettuale dietro all’opera?

Il confine tra l’intervento dell’AI e quello umano in Mimicry è fluido, ma non casuale. L’AI propone traiettorie e possibilità formali che spesso ci sorprendono, ma siamo noi a scegliere cosa ha senso e significato all’interno della narrazione.

Il nostro ruolo come artisti è creare il contesto, definire le regole e decidere quali forme raccontare, che tipo di emozioni e informazioni condividere con il pubblico – accogliendo l’imprevisto, ma mantenendo il controllo sull’esperienza che si intende creare. L’equilibrio sta proprio in questa dinamica: lasciare all’AI lo spazio per generare scenari inediti e, al tempo stesso, assumersi la responsabilità di dare direzione e coerenza all’opera.

A proposito di direzione artistica, l’estetica è uno dei principali filtri con cui l’uomo interpreta e seleziona la natura. Quale ruolo ha avuto nell’elaborazione di “Mimicry”? Ha guidato la generazione o la selezione delle immagini ibride?

L’estetica in Mimicry non è stata un punto di partenza, ma piuttosto un filtro successivo. L’AI ha generato molteplici traiettorie ibride, spesso lontane dai canoni di bellezza a cui siamo abituati, per questo prendendo spunto da Donna Haraway li abbiamo definiti “mostri”.

In questo senso, l’estetica non è stata usata come strumento di giudizio per “scartare” o “perfezionare”, ma come parte di una riflessione critica su come guardiamo la natura.

Abbiamo cercato di mantenere un’apertura verso il mostruoso, il perturbante e il non familiare, perché è proprio lì che emergono visioni in grado di superare il filtro antropocentrico della bellezza.

Spostando la conversazione sulla componente sonora che in “Mimicry” non è un semplice accompagnamento, ma una struttura narrativa che evolve insieme alla parte visiva – come si intrecciano musica e immagine nell’opera, e quale ruolo gioca il suono nella costruzione del racconto complessivo?

Anche in questo caso, come in tutti i nostri progetti, il suono non ha un ruolo accessorio, ma costituisce un livello narrativo che si fonde alle immagini. La composizione musicale nasce dalla stessa logica che governa la parte visiva: i biomi vengono tradotti in strutture armoniche che evolvono progressivamente, generando passaggi fluidi e quasi impercettibili, proprio come le trasformazioni ecologiche che ispirano l’opera.

Il suono reagisce al movimento delle immagini in tempo reale, non descrivendole ma intrecciandosi a esse attraverso variazioni di volume, timbro e ritmo. In questo modo diventa un organismo vivo, che accompagna lo spettatore dentro un’esperienza immersiva dove visivo e sonoro si fondono. Il suo ruolo è quello di amplificare l’impatto emotivo e percettivo: costruire atmosfere, dare respiro ai passaggi, accentuare la dimensione immersiva e poetica del racconto complessivo.

In merito all’impostazione della vostra ricerca, “Mimicry” sembra situarsi in un universo speculativo dove le condizioni di crisi ecologica restano sospese in un presente immobile. Si tratta di una scelta pratica per semplificare l’elaborazione dei dati, o è un modo per riflettere sull’irreversibilità dell’impatto umano sul pianeta?

Creare un universo sospeso significa rendere visibile ciò che normalmente sfugge: la trasformazione del pianeta è già in atto, irreversibile in molti suoi aspetti, e non esiste un ritorno a una condizione “originaria”.

Abbiamo cercato di collocarci in un tempo futuro per mostrare come questi cambiamenti, nonostante oggi stiano avvenendo con crescente rapidità, restino difficili da percepire e quindi da riconoscere nella loro urgenza, rendendo più complessa la consapevolezza della necessità di un cambiamento di rotta se vogliamo preservare la nostra specie.

Noi esseri umani, come ogni altro essere vivente, abbiamo un impatto sul pianeta semplicemente esistendo. Sta a noi scegliere il tipo di interazione che vogliamo instaurare con ciò che ci circonda, consapevoli che la natura, in ogni caso, troverà il modo di adattarsi – indipendentemente dal fatto che noi e le altre specie continueremo a esistere per come siamo oggi.

“Mimicry” prosegue una ricerca che fuse* aveva già avviato con la serie Artificial Botany. In questo percorso sembra emergere una progressione: dall’osservazione della natura come forza generatrice a un approccio di design speculativo. Vi riconoscete in questa traiettoria? Cosa ha ispirato questa evoluzione?

Sì, ci riconosciamo in questa traiettoria, e dopo Artificial Botany, con Mimicry abbiamo sentito l’esigenza di andare oltre la contemplazione, spostandoci verso un approccio speculativo in cui immaginare nuove forme di vita diventa un modo per riflettere sull’evoluzione del pianeta e sul nostro rapporto con la natura. Questa evoluzione è stata ispirata sia dalla consapevolezza della crisi ecologica che stiamo vivendo, sia dal desiderio di esplorare l’ibridazione come linguaggio poetico e politico.

In questo processo è stata fondamentale anche la collaborazione con i professori Mariagrazia Portera dell’Università di Firenze e Renato Bruni dell’Università di Parma, che ci hanno supportato nello sviluppo del progetto, sia per dare una solidità scientifica al concept e allo sviluppo, sia per approfondire gli obiettivi dal punto di vista divulgativo. Con loro continueremo a collaborare per continuare a indagare questi temi e portarli a un pubblico sempre più ampio.

Per concludere, in che modo “Mimicry” si rivolge allo spettatore? Vuole lasciare un monito, o piuttosto ricordare che il mondo naturale continuerà a esistere anche al di là dell’intervento umano?

Con Mimicry non cerchiamo di dare un avvertimento, ma di aprire una prospettiva. Le forme ibride che popolano l’opera sono un modo per riflettere su come la vita, anche in scenari di crisi ecologica, continui a trasformarsi e a trovare nuove possibilità di adattamento.

L’intento è invitare lo spettatore a spostare lo sguardo: dall’idea di un essere umano al centro, a quella di un frammento all’interno di un ecosistema più ampio, fragile ma sempre capace di rigenerarsi.

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