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Music

IN CONVERSATION WITH: FLORE

words: Giulia Maria Scrocchi

L’importanza delle idee e dei concetti, della pazienza e dei limiti. Soprattutto i nostri.

11.07

IN CONVERSATION WITH: FLORE

IN CONVERSATION WITH: FLORE

L’importanza delle idee e dei concetti, della pazienza e dei limiti. Soprattutto i nostri.

Un bravo insegnante lo sa. Sa anche che un rischio va corso anche quando i pronostici non sono chiari, perché è così che va affrontata una sfida, una difficoltà, la vita.

La Flore bambina non l’avrebbe detto, forse non l’avrebbe mai neanche immaginato che un giorno, dopo tante idee e un Atari 1040 STE senza disco rigido, sarebbe diventata la prima donna certificata come trainer Ableton in Francia. Forse non avrebbe neanche sognato di fondare un’etichetta discografica o di diventare mentore e guida per le donne che partecipano ai suoi workshop accreditati, ispirando continuamente una nuova generazione di donne nella musica.

Eppure Flore, nonostante gli incredibili traguardi raggiunti e i riconoscimenti ottenuti, non smette di rischiare per le sue idee (…avete visto la sua ultima Boiler Room?), perché sono questi i gesti attivi che ispirano, scuotono e muovono dal basso verso l’alto.

Attraverso la sua esperienza diretta, ci fa capire perché la produzione, sebbene non necessariamente propedeutica alla performance musicale, sia essenziale nel percorso di un’artista. Apparentemente all’antitesi: un luogo, quello della musica suonata, che è l’hic et nunc, contro la sensazione salvifica di sentirsi in nessun posto ma soltanto nella musica che si sta creando o che si genera dal concetto, suo muro portante – idea, rischio.

Ripercorriamo con Flore le tappe fondamentali della sua carriera, dalle radici musicali piantate nei sound system giamaicani degli anni ‘90, ai breaks e alla drum and bass, quando la scena musicale era più elitaria e frammentata, con poche risorse a disposizione e sostenuta dalla forza di una piccola comunità dallo spirito autodidatta.

Da quel passato Flore prende prima i frutti e poi i semi, fertilizzante per far nascere qualcosa di diverso, per non rivivere il vissuto ma dargli un nuovo senso. Permettere che risuoni in noi.

Come è cambiato il tessuto culturale intorno a te nel corso degli anni? Sicuramente, da quando eri appena diciottenne ad oggi, la Francia avrà attraversato più di una fase in campo musicale…

È una domanda davvero ampia. Penso che l’attenzione che riceve oggi un genere musicale non abbia nulla a che vedere con quello che ho vissuto io negli anni ’90. Ricordo che un’estetica musicale godeva di super hype per 3 o 4 anni, così tanto che avevi l’impressione che non esistesse nient’altro. Penso a quando la techno minimal era l’unica musica che potevi ascoltare, poi c’era electroclash… uno stile veniva sostituito dall’altro e così via. Inoltre la scena musicale in Francia era estremamente frammentata: gli appassionati di techno non si sarebbero mai mescolati coi junglist o con gli amanti dell’hip hop… Credo che dipendesse dal fatto che questi stili erano così nuovi e di nicchia che la maggior parte di quei ragazzi si sentiva come in missione, come se fossero dei predicatori. 🙂 Preferisco di gran lunga l’epoca in cui viviamo oggi, ho la sensazione che ci sia spazio per tante cose diverse. Ovviamente la techno rimane quella principale, ma perché sono tantissime le persone che ascoltano musica elettronica, come non mai, e molti di più sono anche i luoghi/festival dove ascoltare musica “diversa”; questo spinge alcuni promoter a offrire proposte artistiche più ampie.

Ti sei avvicinata prima alla produzione e poi, in un secondo momento, al DJing; ci racconti quali sono, in base alla tua esperienza personale, le principali differenze tra questi due approcci?

Amo suonare per la spontaneità dell’atto e per l’interazione che si crea con il pubblico. È qualcosa che riguarda l’adesso: sei qui, con la folla, senti la musica in tutto il tuo corpo: una sensazione di cui sono totalmente dipendente (è stata la prima cosa a mancarmi durante la pandemia, davvero). Ma non potrei mai fare a meno della produzione, che è un processo più intellettuale o intuitivo e fornisce l’equilibrio di cui il mio stato emotivo ha bisogno. Al contrario della performance, la produzione mi dà la possibilità di essere da nessuna parte, nel senso che sono così concentrata e immersa che dimentico dove sono e da quanto tempo sto lavorando. Questa sensazione di sentirsi persi nella propria musica è davvero salvifica. Si tratta anche di un’esperienza che spinge oltre i propri limiti. Per quanto possa essere dolorosa e frustrante, porta con sé molte sorprese e conoscenze, sia sul lato tecnico che su quello personale e artistico. È qualcosa che mi affascina molto.

Se potessi descrivere la tua produzione attraverso un disegno, quale sarebbe? E che colori utilizzeresti?

È una domanda adorabile. Immaginerei qualcosa con molti contrasti, realizzato utilizzando diversi colori, materiali e luci… qualcosa che abbia rilievo.

Avendo iniziato con la musica a fine anni ‘90, avrai avuto la possibilità di vivere tutte le sue transizioni, tutti i modi in cui veniva riprodotta, prodotta e ascoltata. Ti va di parlarci di questo cambiamento, ma anche di come – in particolare all’interno della tua nicchia – siano cambiate le cose a livello di strumenti e software?

Quando racconto ai miei studenti cosa utilizzavo per produrre musica, pensano che sia un dinosauro, ahah! Ho iniziato con un Atari 1040 STE senza disco rigido, pochi megabyte di RAM e una copia di Cubase. Quindi si doveva lavorare in MIDI con synth hardware o campioni, lo stesso valeva per il mixer, ecc… tutto era lento e piuttosto tecnico, dovevi leggere il manuale perché alla fine degli anni ’90, a Lione, la comunità di riferimento era pressoché inesistente! Ma eravamo fortunati perché c’era un negozio che vendeva attrezzature da studio e i ragazzi che ci lavoravano erano super cool, erano davvero pazienti con me, trascorrevo letteralmente ore nel loro negozio, facendo domande, ahah!

Le cose sono cambiate dopo il 2000, quando ho avuto il mio primo PC con connessione internet (56Ko!).
All’epoca non c’erano YouTube o i forum, ma ho avuto l’opportunità di essere invitata a far parte di quello che potremmo chiamare un “newsgroup”, gestito da artisti della scena hardcore/hardtech, che si dedicava alla produzione musicale. Era una sorta di forum privato via e-mail che mi ha aiutato moltissimo. Aveva questo spirito così autodidatta, le persone si aiutavano a vicenda, davano consigli ecc., poi sono apparsi i forum e così via. I giovani produttori di oggi non riescono a capire quanto siano fortunati ad avere forum, YouTube, Discord, Twitch e tutto il resto. Puoi trovare qualsiasi cosa in un minuto! Il rovescio della medaglia però è che a volte le persone partono subito con le tecniche più avanzate perdendo di vista l’elemento principale: l’idea.

Lo vedo continuamente durante i miei workshop. I giovani credono che con il mastering perfetto la loro musica migliorerà, quando invece il vero problema è: qual è l’idea dietro al tuo brano?

Quanto è importante oggigiorno sapersi reinventare? Oppure la cosa più importante è rimanere sempre radicali?

È difficile parlare per gli altri. Per quanto mi riguarda, ho la sensazione che da quando sono adulta io stia creando progetti o musica che evocano, in me, una sorta di reminiscenza della mia infanzia o adolescenza. Ma, da adulta, non voglio rivivere quella stessa esperienza, non avrebbe senso. L’idea è piuttosto quella di usare quei riferimenti come fertilizzante per far nascere qualcosa di diverso. Quindi no, non sono sicura di essermi reinventata. Voglio dire, ho sempre fatto un sacco di cose diverse ma penso che le persone lo comprendano meglio adesso. Credo di aver sempre seguito la mia strada, fin dall’inizio, ed è davvero bello vedere come questo possa risuonare in alcune persone e avere senso nelle loro vite.

Come pensi che siamo arrivati, in questo momento storico, ad un nuovo riscoperto interesse nei confronti della bass music e della dub?

A dire il vero non me l’aspettavo proprio, ahaha! A Lione, le cose hanno iniziato a cambiare un paio d’anni prima del Covid. Potevi scoprire un sacco di giovani DJ, produttori o etichette che organizzavano eventi in bar, gallerie, e che suonavano questa strana drum’n’bass e musica sperimentale… È stata davvero una boccata d’aria fresca! Poi è arrivata la pandemia e in un certo senso ha aiutato, questa, almeno, è la mia sensazione. I grandi nomi si sono ritirati e c’era molto spazio per la musica bass e quella sperimentale, nelle riviste, nelle playlist e nelle radio. Lo posso dire per esperienza personale: il mio album Rituals è uscito il 7 aprile 2020, 3 settimane dopo l’inizio del lockdown, e ha davvero beneficiato di tutto ciò. L’intera campagna promozionale è durata tutto l’anno perché i media avevano semplicemente il tempo di parlarne. Penso che non sarebbe mai andata così senza la pandemia.

Che ne pensi di queste iniezioni di trance che si stanno diffondendo sempre di più nei dancefloor?

A dire il vero credo di vivere in un altro universo perché sento davvero pochissima trance alle feste a cui partecipo :). Ma ne ho sentito parlare, ovviamente.

Ho la sensazione che la trance porti con sé lo stesso tipo di emozioni che c’erano quando l’happy hardcore fece il suo ritorno: euforia e fantasia. Ma c’è anche una sorta di nostalgia, a mio parere. È divertente perché funziona soprattutto sui giovani che non hanno vissuto questa esperienza, quando tutto è nato.

Quello che mi piace, però, è l’influenza che ha sulla cultura popolare e sulla musica elettronica più di nicchia… Ed è solo l’inizio.

La nostra redazione è composta principalmente da donne; questo ci rende davvero orgogliose. Cosa ne pensi del ruolo della donna nella musica? Credi che le cose siano migliorate ultimamente?

Onestamente, ci sarebbe molto da dire… Penso che nei grandi festival mainstream non sia cambiato nulla. Il denaro è troppo importante per prendere in considerazione questo argomento. Ma in Francia, nei grandi club delle grandi città o in alcuni festival come Nuits Sonores o le Bon Air, riesco a vedere un grande cambiamento; è davvero interessante ed eccitante. Riguardo alla produzione, sento ancora che ci sia bisogno di più produttrici di musica bass in Francia… non siamo poche, ma dov’è il sangue nuovo? Voglio vederlo! 🙂

Pensi che la Flore bambina, quella che scelse di andare a lavorare per comprarsi la strumentazione, avrebbe mai creduto che saresti arrivata dove sei ora? Secondo me ne sarebbe davvero fiera…

Ahah, che dolce! Sai una cosa? Penso che sarebbe davvero sorpresa. Quando ho iniziato a comporre musica dance sapevo che era qualcosa che volevo nella mia vita ma non sapevo se sarebbe stato possibile costruirci una carriera. Probabilmente non ci avevo neanche pensato. Ma sì… credo che ne sarebbe impressionata. E felice! 🙂

Che obiettivo ti sei posta quando hai creato POLAAR? Raccontaci della storia della prima e dell’ultima release.

L’idea di aprire un’etichetta è nata presto, probabilmente dopo l’uscita del mio primo album, nel 2010. A quel tempo ero un po’ delusa dalla musica bass, dal mercato stesso e anche dalla musica in generale, dal modo in cui veniva plasmata per adattarsi all’uso dei DJ. Lo trovavo noioso e insoddisfacente. È stato quello il momento in cui ho deciso di suonare dal vivo, usando Ableton Live. Lavorare a questo nuovo progetto mi ha spinto a creare nuove canzoni e sapevo che sarebbe stato difficile trovare un’etichetta, erano canzoni troppo strane per quei tempi. Un primo EP era pronto nel 2014 e ho chiesto al mio migliore amico, Marc, se fosse disposto ad aprirne una con me. Ha detto di sì. 🙂

RITUAL Part 1 è uscito a novembre, in digitale e su vinile, ed è stato il primo EP in cui mostravo ciò a cui stavo lavorando. Dopodiché abbiamo iniziato a ricevere demo e a pubblicare musica di altra gente, come quella di SNKLS, Prettybwoy o Only Now. Artisti con cui lavoriamo ancora, a distanza di 10 anni, e questo mi rende molto orgogliosa.

Per il nostro decimo anniversario stiamo lavorando a una compilation in cui i nostri artisti remixano brani tratti dal nostro catalogo ed è assolutamente sbalorditivo vedere che lavoriamo con la maggior parte di loro fin dall’inizio. Abbiamo creato una famiglia. 🙂

Ci racconti la tua vita da insegnante?

Ho iniziato ad insegnare 10 anni fa, totalmente da autodidatta. Nel 2016 sono diventata la prima donna Ableton Certified Trainer ed è stata una grande cosa. Ha davvero aiutato le persone a notarmi (è divertente perché, anche se faccio musica dal 2003, ottenere la certificazione ha fatto cambiare la percezione che le persone avevano di me come musicista professionista [ride NdR]) e anche a parlare della carenza di donne nel lato tecnico dell’industria. Ci sono un sacco di cose da dire su questo (magari in un’altra intervista!?), ma posso affermare che ci sono più donne nei miei corsi o workshop rispetto a quelli tenuti dai miei colleghi maschi; quindi avere modelli ha sicuramente senso e sono orgogliosa se le persone pensano che io lo sia per loro.

Qual è quell’artista che – indietro nel tempo, quando l’hai scoperto – ti ha completamente cambiato la visione che avevi fino a quel momento della musica?

Direi Steve Reich o Philip Glass. Musicalmente parlando sono incredibili ma ciò che amo di più sono il processo e il concetto dietro alle loro composizioni. Ci mostrano il potere della limitazione. È qualcosa a cui penso spesso mentre lavoro su una canzone.

E quali sono gli artisti che in questo momento stanno attirando di più la tua attenzione e attivando i tuoi sensi?

Il mio umore musicale è sempre caotico ma al momento sto ascoltando molto Alessandro Cortini, Fever Ray, Cheb Kader, Anhoni, ECHT!, Corin, DJ Fonseca o vecchi lavori di DJ Pinch. E il mio eroe di sempre, Andy Stott.

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