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IN CONVERSATION WITH: EHUA

words: Luca Menanti

02.06

IN CONVERSATION WITH: EHUA

IN CONVERSATION WITH: EHUA

Il 2 maggio è uscito Panta Rei, il primo album di Ehua. Sedici anni vissuti a Londra, una carriera luminosa come DJ e producer e la necessità di aprire un nuovo capitolo. Perché stavolta, Ehua ha lasciato che fosse la sua voce a guidare il racconto.

Panta Rei è un disco che scava nelle emozioni e nella storia personale, ma che non rinuncia alla forza e alla fisicità del dancefloor. Un lavoro in cui l’elettronica si fa più materica, più intima e umana.

Un concept a trecentosessanta gradi, che include uno short film, un booklet di trentadue pagine e la straordinaria opera in cemento realizzata da Jeroen Erosie e fotografata nell’artwork del disco, per restituire al pubblico non solo un album, ma un mondo.

Ne abbiamo parlato con Ehua pochi giorni prima dell’uscita: una chiacchierata sincera, tra memoria, ricerca e nuovi inizi.

Cosa significa questo disco per te? Come nasce? Cosa rappresenta, sia nel tuo percorso artistico che a livello personale?

Direi che questo album è una naturale evoluzione di quello che ho fatto fino ad ora. È insieme un punto d’arrivo e un punto di partenza. Dal punto di vista tecnico e produttivo sento di aver raggiunto una certa sicurezza, una padronanza che considero un traguardo. Ma allo stesso tempo, rappresenta per me un inizio: voglio aprire nuove porte, esplorare territori che finora avevo tenuto più in ombra, e far emergere tutte le sfumature della mia identità musicale. Faccio musica elettronica da club da tanti anni, e questo aspetto continuerà a far parte di me, perché ci sono cresciuta e lo sento profondamente. Ma parallelamente ho sempre coltivato anche un lato più sperimentale, più melodico — direi quasi cantautorale — che per tanto tempo è rimasto in secondo piano. Solo adesso ho trovato la giusta consapevolezza per dargli spazio, per farlo uscire davvero.

È stato anche un percorso molto personale, perché ho prodotto l’intero disco da sola, qui nel mio studio di casa. Dove mi vedi adesso, su questa sedia. E questo ha significato affrontare una parabola fatta di tanti alti e bassi, di insicurezze, di lavoro pratico quotidiano molto intenso. A livello simbolico, rappresenta una sorta di completezza: è il punto in cui mi sento davvero vicina a ciò che voglio essere come artista, ma anche come persona. In particolare, usare la mia voce è stato un cambiamento profondo. È una cosa che ho sempre fatto, ma in privato, quasi in segreto. Solo attraverso un percorso personale — anche emotivo — ho trovato il coraggio di farlo davvero, di espormi. E di imparare ad accettare, conoscere e mostrare la mia voce.

Come si è sviluppato il concept? Immagino che tu ne abbia parlato anche con Martyn. Ti ha spronato lui a cantare su questo disco? È stato lui a voler dare questa direzione al lavoro?

È stata una cosa un po’ particolare. Avevo promesso a Martyn un nuovo EP per la sua label, 3024. Ci siamo visti al Dekmantel nel 2023, eravamo entrambi in line-up. Mi ha detto: “Mandami nuova musica, facciamo un altro EP”. Clouds era uscito da poco, a febbraio, e per me era già una cosa bellissima. Mi sono messa subito a scrivere. Lui ha anche suonato un mio pezzo unreleased, Aria, proprio al Dekmantel, che poi è finito sull’album. Da lì è partito tutto.

Tornata dal festival, ho scritto Albicocca. È stata la prima traccia che mi ha fatto pensare: “Questa forse potrebbe uscire”, tra tutte quelle ballad che avevo nel cassetto, produzioni dove cantavo, ma che tenevo per me, come qualcosa di personale. Poi però è passato un po’ di tempo. Era agosto, e arriviamo a dicembre: ancora non avevo mandato nulla a Martyn. Avevo vissuto un periodo complicato, anche a livello familiare, che mi aveva portata a una sorta di burnout. Martyn mi scrive e mi chiede: “Che fine ha fatto l’EP che mi dovevi mandare?”

E io gli ho risposto: “Guarda, ho prodotto pochissima musica club. Ho lavorato tanto, ma su altro”. E gli ho mandato una cartella con 18 tracce… tutte in cui cantavo al contrario! Lui ha ascoltato tutto e gli è piaciuto molto. Gli piaceva come suonava la mia voce, ma mi ha fatto la “domanda fatidica”: “Non è che cantare al contrario è un modo per nascondere qualcosa? Per non affrontare certi blocchi, magari a livello personale o emotivo? La tua voce è bellissima, e anche quello che dici merita di essere ascoltato”.

Quella domanda mi ha colpito tantissimo. Perché non veniva da un amico che ti fa un complimento per affetto. Veniva da un professionista che stimo da tantissimi anni, da quando ho iniziato a seguirlo, intorno al 2009. E per la prima volta ho sentito che qualcuno vedeva davvero il potenziale di questo mio lato più cantautorale. È stato un momento decisivo. Tutte le cose che avevo vissuto, che mi avevano fatto paura, improvvisamente non mi facevano più paura. E quella validazione da parte sua è diventata un’enorme fonte di motivazione. Ho iniziato a chiedere in giro, ad amici cantanti, se conoscessero vocal coach. E a gennaio 2024 ho iniziato a lavorare con Anya Ysabella, una vocal coach straordinaria. Mi ha accompagnata, passo dopo passo, in un percorso di scoperta: della mia voce, del mio range. Ho una voce molto bassa, che tende ad andare verso il grave più che verso l’acuto — lo sapevo, ma non avevo mai veramente capito che potevo trattarla come uno strumento da suonare, da usare in modo consapevole.

Quello è stato il momento più importante. Da lì, con Martyn, abbiamo deciso di fare un esperimento: un album di ballads & bangers. Mischiare il mio lato più club con quello più melodico, cantautorale, in modo fluido, quasi impercettibile. Certo, per un attimo ho pensato: “Forse dovrei creare un altro alias, un nuovo progetto, per questa musica così diversa ai miei occhi — anzi, alle mie orecchie!” (ride) Ma lui mi ha detto: “No, sei comunque tu. È solo un’espressione diversa di te”.

In realtà, il titolo Panta Rei l’avevo già in testa da un bel po’. Ho trovato quella parola nei miei diari già a novembre 2021. Quando abbiamo deciso di fare l’album, sapevo che si sarebbe chiamato così. È un aforisma della tradizione filosofica di Eraclito, che avevo studiato al liceo classico. Un concetto che non era mai stato parte attiva del mio percorso, ma in quel momento era diventato un mantra: “Va tutto bene. Andrà tutto bene. Le cose scorrono, passano. E alla fine le superi, e quasi non ti ricordi più quanto ti facevano male”. Panta Rei per me significa quello. È stato come arrivare in cima a una montagna e dire: “Ok, ce l’ho fatta. Ma non solo: io sono tutta questa montagna”. E volevo che questo disco rappresentasse tutta quella montagna. Alcune canzoni esistevano già, altre sono nate proprio dal momento in cui mi sono data il permesso di scavare, di guardare dentro. Come se avessi preso ogni sasso che trovavo e avessi detto: “Ok, tu sei questo. Ti tengo. Oppure no, ti lancio via. O magari ti metto di lato. Ma so che ci sei”. Questo è stato il processo, ed è diventato il concept dell’album. Un disco che scorre — tra atmosfere club e pezzi più intimi — in cui ho riversato tutto quello che avevo dentro, tutto quello che mi tratteneva dal cantare, dal mostrarmi davvero per quella che sono. È stato un lavoro lungo un anno e mezzo. E molto, molto importante per me.

Lo short film del disco è girato a Londra e incarna le atmosfere crude e industriali della città. Hai voluto celebrare tutta questa parte della tua vita che finora hai trascorso lì, lontana dalla tua famiglia e da tutto quello che ti ha accompagnato fino a quel momento?

Assolutamente. Scegliere la location del film è stato un processo molto immediato, perché sapevo che sarebbe stata Hackney Wick, che confina con il quartiere in cui vivo attualmente, ma dove ho vissuto per un sacco di anni. E sapevo che volevo esattamente quel tipo di estetica lì, proprio perché fa parte di tutto quello che è il mio percorso come Ehua.
E volevo tornare bambina dentro questo spazio, perché per me lo spazio di Hackney Wick, lo spazio di Londra, è uno spazio di empowerment che mi ha permesso di diventare la Celine e la Ehua che sono oggi. Ma volevo fare un percorso inverso, che è quello che faccio nel film: esplorare il tema della trasformazione attraverso quattro capitoli (Rhythm, Language, Others, Movement n.d.r.), tornando bambina, quindi mettendomi nei panni di una persona che vede una serie di cose fuori dal suo piccolo guscio e ne vuole essere parte, ma non sa bene come.
Questa cosa succede in diversi momenti nel corto, in particolare l’essere sotto il tavolo. Il cappotto che indosso è il cappotto di mia nonna, portato da Pisa, probabilmente comprato a un certo punto degli anni ‘50.
La montagna di vestiti è una reference alla “Venere degli Stracci”, un’installazione di Michelangelo Pistoletto che è stata al Tate Modern per tanti anni e adesso non esiste più. I vestiti in quella montagna sono quelli che ho indossato nei photoshoot di Ehua da quando il mio personaggio è pubblico.

Mi ero chiesto quale fosse il senso del point of view da sotto il tavolo nei primi attimi in cui compaiono i danzatori...

Il tavolo sotto il quale mi trovo a un certo punto del film è una protezione, una sorta di guscio. Il mio animale preferito è la tartaruga per un motivo: perché lo sono. Però è un tavolo con una rete sopra, quindi in realtà passa la luce. Io voglio uscire, voglio far parte di quella danza – di cui in realtà sono già parte.

E appunto questi quattro movimenti che tu hai voluto distinguere, queste quattro fasi all’interno di tutto il disco…

Sono una persona che adora la lingua, adoro le lingue, adoro quanto ci sia dentro una parola. Adoro il fatto che sia fatta di simboli che messi insieme creano qualcos’altro. E le parole che ho scelto per descrivere i quattro capitoli sono parole che appunto hanno questa essenza un po’ camaleontica, in un certo senso.
E volevo portare fuori proprio la molteplicità degli aspetti della vita, anche di parole singole, anche di cose molto semplici, molto basilari. Volevo proprio che avessero un’estetica quasi enciclopedica, o da dizionario, nel modo in cui vengono poste. Proprio spiegare la scienza, come dire, spiegare con un diagramma queste parole, far vedere l’alfabeto fonetico.
Io ho insegnato inglese per tanti anni, l’alfabeto fonetico ti permette di pronunciare parole che non conosci. Io penso che sia l’alfabeto più importante di tutti, ma è conosciuto da pochissime persone, pochissimi lo usano.
Quindi sì, insomma, volevo cercare di portare a galla la complessità delle cose, perché le cose sono complesse.
E volevo portare a galla tutte queste domande che ho e di cui non ho la risposta – e questo piacere nel non avere le risposte.

Ovviamente la musica al centro, ma poi appunto anche le immagini e la parola…

Assolutamente. Il vinile esce accompagnato da un libretto di 32 pagine, in cui vado ancora più a fondo su tutti questi temi, specialmente quelli del corto, ma anche l’artwork e un po’ la concettualizzazione dell’album e delle canzoni.
Perché appunto ogni cosa ha un significato e sono felicissima che l’etichetta mi abbia dato la possibilità di affrontare tutti questi strati di significato in maniera espansiva.
E questa cosa per me era molto molto importante.

Parlami di Martyn, una figura importantissima nella scena elettronica degli ultimi vent’anni. Nonostante il suo lavoro sia fortemente incentrato su sonorità club, pubblicando questo tuo lavoro ha dimostrato una sensibilità molto sfaccettata…

Provo un grande senso di gratitudine nei suoi confronti, non solo per aver creduto in me, nella mia voce, in quella che è appunto la mia attitudine artistica, ma anche per essermi stato d’ispirazione, da Vancouver (brano presente in Great Lenghts n.d.r.) fino ad oggi.
Le persone conoscono poco del suo percorso, però è una persona circondata da mondi molto diversi. Il suo programma su NTS è il mio show jazz preferito, per esempio. Lui su NTS suona solo jazz, il suo show si chiama The Darkest Light ed è fantastico.

In ogni contesto in cui si pone riesce a portare una sensibilità e una profondità di approccio e di pensiero che secondo me lo rende veramente uno dei personaggi di maggior ispirazione nella scena di oggi. E poi il programma di mentoring che porta avanti è la dimostrazione di quanto non sia lì solo per lui ma anche per gli altri. In un’industria molto individualista come quella del clubbing – anche se nell’ underground tra gli artisti c’è un clima di supporto e condivisione spontanei – il suo programma di mentoring penso che sia un punto di riferimento molto importante per tutti quelli che si vogliono avvicinare alla scena. Quindi sono ancora più fiera di lavorare con una persona che ha questo approccio molto generoso nel condividere e nel fare arte, perché non è una cosa da dare per scontata nell’industria musicale.

Panta Rei nasce dall’esigenza di dare nuove prospettive all’esperienza club, per come viene percepita e vissuta ai giorni nostri?

Sì. Per il semplice fatto che penso che il modo in cui si consuma la musica club è cambiato negli ultimi anni. Adesso è molto più basato sull’aspetto sensazionale del DJ, con le big crowds, con questi momenti di euforia molto potenti. I ricordi migliori, nella mia esperienza, sono quelli in cui sei con la testa in basso davanti al muro di casse e le vibrazioni che ti fanno venire la pelle d’oca, con le persone a cui vuoi bene intorno a te, gli amici con cui sei andato alla serata, e l’artista che ti sta facendo quel regalo in quel momento.

Niente telefono, niente stories e se ti guardi è per scambiare una bass face, per esempio, no? Questa cosa mi manca, in realtà. E diciamo che io sono felicissima del percorso che ho fatto nel mondo del clubbing e l’adoro. L’energia che mi dà suonare nei club è enorme e l’apprezzo tantissimo. Però ho sempre cercato di avere un sound originale. Sono sempre andata per l’approccio: quando qualcuno suona la mia traccia, quando io suono la mia traccia, voglio sentire Ehua, non voglio sentire house o techno o un genere specifico. Io sono per il “tutto scorre”, quindi in realtà questo album è un po’ uno spostarmi di lato per uscire dal coro, in un certo senso.
Non che mi sia mai sentita parte del coro, perché ho lavorato per creare un signature sound che è mio e basta. Però c’è stata un po’ un’omologazione a livello di sonorità, dalla quale mi volevo un pochino staccare e ricreare questo mondo in cui suono tutto e mi piace suonare tutto, canto tutto, produco tutto. E la sensibilità e il riuscire a creare nuove stanze musicali tramite l’ibrido è importante. Quindi spero un po’ che questa divisione dei generi, ecco, che è stata riportata a galla dopo la pandemia, si attenui e si ritorni ad ascoltare un po’ di tutto.

Un’esperienza un pochino più fluida e immersiva, senza ricercare necessariamente un mood specifico all’interno anche di un set, no? E dare agli artisti la possibilità di esprimersi…

Esatto. Per me andare a ballare è sempre stata come una sessione di ginnastica/terapia, nel senso che si va per sudare, per essere immersi nel momento, ma anche per lasciare un po’ tutto lì, no? E secondo me, ecco – non voglio fare quella vecchia, fra virgolette – però quando si promuove il clubbing come un’esperienza euforica, sensazionale, anche chi compra il biglietto secondo me poi magari rimane deluso da certe situazioni. Perché è un po’ uno specchietto per le allodole, no? Questo dei super DJ con le super crowds…
Quindi, insomma, secondo me stiamo dando importanza a aspetti un po’ superficiali di quello che è il nostro mondoi, negli ultimi anni. E i social hanno un po’ contribuito a questa cosa qui. Io non sono anti-social, per carità. Anzi, adoro i social, mi permettono di connettermi col pubblico, con altri artisti. Però hanno creato delle aspettative un po’ irrealistiche, e che mettono anche una divisione molto grossa tra quello che è l’headliner e il DJ invece local, magari, che però spesso crea molta più cultura e educazione anche a livello musicale e sonoro.

In “Bricks” dici “dire, fare, baciare, lettere, testamento”. Vuoi spiegare perché hai voluto inserire questa filastrocca nel disco?

Il motivo per cui dico “di nuovo: dire fare baciare lettere testamento” è perché in Clouds è presente un vocal al contrario che dice “dire fare baciare lettere testamento”. In quel caso intendevo gioco, felicità, leggerezza. Ma adesso, quando lo pronuncio, voglio dire che prendo sul serio tutto quello che dico. Il dire, il fare, il baciare, le lettere, il testamento, cioè con chi interagisci, con chi decidi di fare questo gioco della vita, no?

é un messaggio un po’ criptico, però era importante per me soprattutto ricollegarmi all’EP che ho fatto su 3024 prima di questo album, perché anche quello è stato un gran momento di svolta per me, di leggerezza, di consapevolezza, che ha portato poi a Panta Rei, quindi i due lavori sono inevitabilmente collegati, ecco. E volevo che ci fosse un accenno ai nuvoloni che sono passati.

Diciamo che Clouds è stato un po’ il precursore per certi versi… Assolutamente.

A proposito di quello che dicevi prima rispetto all’avere un signature sound, tu da quello che mi risulta hai sempre anche registrato molto i tuoi suoni…

Io registro quasi tutte le percussioni e tutto quello che è l’hi-hat a livello percussivo è registrato con penne, sassi, sale… per esempio ho creato questi shaker con le bottigliette dello Yakult…

Inoltre ho fatto una residenza artistica nel 2024, in questo studio che si chiama Willem Twee e ho avuto la grandissima fortuna di passare una settimana a lavorare con due dei synth più rari che esistono: l’Arp 2500 e l’Arp 2600. Poi lì hanno un organo gigante, di quelli incastonati nel muro, che ho registrato, e un sacco di bass lines nell’album sono fatte con l’organo. Ha queste note, questi toni bassi che per me sono di altri mondi.

E poi ci sono anche un sacco di macchine, la cui definizione in inglese è test measurement equipment. Sono praticamente queste macchine sviluppate e create negli anni ’50 per testare i chip, che però producono un sine wave che tu puoi, diciamo, manipolare. Per esempio tutto il tappeto sonoro di Matite e di Bunju è fatto con quelle macchine lì. Anche in Sistemi ci sono estratti di queste sessioni di ore e ore che ho registrato smanettando su quelli che sono strumenti che in realtà non sono neanche stati creati per fare musica. E questa cosa è molto bella, perché si ricollega al fatto che nella mia pratica uso strumenti che non sono necessariamente musicali. Ed è stato un processo molto bello che mi ha ispirato tantissimo e poi è diventato parte dell’album.

Sono una grande appassionata di strumenti analogici e apprezzo chiunque investa in quel tipo di equipment. Io ho deciso di creare un approccio che è più basato sul field recording e uso un sacco di strumenti virtuali. Insomma, sono molto in the box nel modo in cui mi approccio alla produzione ma apprezzo anche l’altro tipo di approccio. Semplicemente ognuno si crea il proprio campo d’azione dentro le proprie possibilità, e queste sono le mie possibilità. Sono una persona che vive seguendo il mantra di “necessità-virtù” e quindi da necessità ho creato una virtù, che è quella di avere questo approccio alla composizione musicale molto variegato e personale.

Anche il corto è tutto realizzato con i miei soldi, cioè con le mie possibilità, con amici e persone con cui ho già collaborato in passato. Quindi in realtà è stato tutto molto full circle. Però ecco, lo short film è stato realizzato con veramente poco per quello che è e per come è venuto. Quindi sono molto fiera anche di questo. Approccio DIY tutta la vita. Artista indipendente: in struggle ma felici e con la dignità integra.

C’è qualche aneddoto legato al disco che ti piacerebbe raccontare?

Alcuni titoli sono legati anche a cose della mia infanzia, o a riferimenti ai cartoni animati. Per esempio “Bumju” è un animalino spirito nel cartone Avatar: L’ultimo dominatore dell’aria. In realtà la canzone parla di una situazione che non è mai successa, infatti parlo di altre stringhe di realtà. Però è ispirata ad una situazione vera. Ero a New York con Masha (Sha Ru n.d.r.), eravamo andate ad una serata e mi ero presa una cotta impressionante per un ragazzo che avevo visto passare. Però era stata una giornata molto difficile per me perché avevo ricevuto una brutta notizia dall’Italia. Ero con la testa da un’altra parte — “me ne devo andare”, “i voli costano troppo” — ma ero lì a New York. Sapevo che questa cosa non si sarebbe mai realizzata, ma quel momento lì mi è rimasto. L’ho scritto nel diario e poi ci ho fatto una canzone. Quindi dovevo trovare un titolo per questa situazione, che fosse qualcosa di irreale ma spirituale… esiste ma non esiste.
Esiste il personaggio di un cartone animato nella realtà? Per me sì. Cioè, Goku è una persona vera, se ci pensi. Però ovviamente non esiste, capito?

Poi c’è una canzone intitolata New York City…

New York è sempre stata un sogno. Il motivo per cui vivo a Londra è perché a 12 anni ho detto a mia mamma che volevo andare a New York a 18 anni.
Poi dovevo imparare l’inglese, quindi sono andata prima a Londra… e ci sono rimasta. Però New York è una città che mi ispira tantissimo. È stata un punto di riferimento per me a livello di rappresentazione.
Quella canzone in realtà parla del fatto che per un periodo di tempo ho sofferto di psoriasi, che mi veniva per lo stress — motivo per cui parlo di questi pensieri che non riesco a zittire, and “they spill out in my body”.
Per me è una dicotomia enorme, quella canzone, tra la realtà dell’essere legati a una dimensione molto fisica e umana e la sfera dei sogni.
Un altro sogno, che non ho mai realizzato perché non ho mai avuto la costanza di imparare uno strumento, era suonare il piano.
E io quel giorno mi sono seduta e ho iniziato a suonare quasi come se lo sapessi fare.
La canzone è nata in mezz’ora. Il vocal è uscito tutto in one take, ed è rimasto praticamente uguale alla prima versione.
Quindi volevo un titolo che mettesse insieme sogni, realtà, sogni da piccola, sogni da grande, la realtà che avevo, quella che volevo… quindi New York City.

Poi c’è Candies,verso la fine del disco, che suggerisce delle atmosfere inquiete. C’è anche un field recording all’inizio, con delle voci…

Sì, Candies è la canzone più dolorosa, in un certo senso, di tutto l’album, perché parlo della mia famiglia. È tutto al contrario, perché non sono riuscita a cantarla “dritta”. Il field recording che si sente all’inizio è una registrazione audio presa da una videocassetta del primo bagnetto di mio fratello Matthieu, appena tornato a casa dall’ospedale. Era il 12 febbraio 1993. Ci sono io che ho circa tre anni, schizzo nell’acqua, faccio casino, chiedo a mamma il sapone perché sto cercando di lavare la mia bambola… mentre lei in realtà si sta prendendo cura di mio fratello. E Candies per me sono quelle cose buone, dolci — le caramelle — che però ti fanno venire le carie.
Perché la famiglia è bellissima, ma anche fonte di angoscia e preoccupazioni.
La canzone dice che io sto bene solo se loro stanno bene.
E ho scelto proprio quella clip perché Matthieu aveva un gemello, Julien, che non è sopravvissuto. Sarebbe dovuto essere lì, ma non c’era.
Noi siamo così felici che Matthieu ci sia, siamo a casa, stiamo facendo il bagnetto… papà riprende. Però per noi, come famiglia, c’è un elefante nella stanza in quel momento: qualcosa che c’è, ma non si vede. Anche queste cose scorrono. Sono felice della mia famiglia, così com’è, anche senza Julien, perché dovevamo essere così. Ma Julien c’è lo stesso.
Prima di me c’era anche un altro fratello, Philip. Siamo tre, ma in realtà siamo cinque. Non siamo solo tre fratelli. Un sacco di complessità per dire che loro sono la cosa più importante: quelli che ci sono, quelli che non ci sono. Li porto tutti dentro. Sono il mio vizio più grande — come le caramelle, io sono una gran golosona — ma anche la fonte più grande di dolore.
Perché alla fine tutti soffriamo, ma facciamo finta di no.

Ed è stato doloroso riguardare il filmino per registrare le voci?

No, è stato molto bello. Ora, la descrizione che ti ho fatto ha elementi negativi molto pesanti, ma noi ne abbiamo sempre parlato. I fratelli che non ci sono li abbiamo sempre “avuti” in casa, andiamo a trovarli, non è mai stato un tabù. È sempre stato normale parlarne e affrontarlo insieme.

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