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Music

In Conversation With: Assyouti

words: Giulia Maria Scrocchi

11.09

In Conversation With: Assyouti

In Conversation With: Assyouti

Uno dei miei più grandi rimpianti è sempre stato non aver potuto vivere in prima persona la scena della musica elettronica da club tra la fine degli anni ’80 e la fine degli anni ’90. Quello è stato senza dubbio il momento in cui tutto aveva preso forma. Ma negli ultimi cinque anni, le cose per me sono in parte cambiate.
Ho imparato che invece sono fortunata a poter vivere questo momento specifico della musica. E mi sento fortunata proprio perché esistono artisti come Assyouti. La musica deve parlare del nostro tempo, a prescindere dai generi: deve tradurre e raccontare il nostro tempo con le sue peculiarità — che sono quindi, per definizione, inevitabilmente diverse da quelle del 1985–1999.

Assyouti appartiene a una generazione di artisti che negozia molteplici geografie di suono, cultura e appartenenza — ma attenzione: non per le sue origini, ma unicamente per la sua espressione sonora. Ciò che emerge dalla sua pratica non è una narrazione fissa, ma una serie di tensioni: tra istinto ed aspettativa, ambiguità e leggibilità, rischio e sperimentazione. Non lasciando le sue origini alle spalle, ma piuttosto trasformandole in qualcosa di nuovo; capace di dare voce al tempo che stiamo vivendo: con più possibilità di essere noi stessi, ma anche con molte ombre e lati oscuri. (Vivi, ma a quale prezzo?).

Assyouti parla apertamente della sua resistenza agli effetti di appiattimento delle tendenze e alla pressione di rendere i suoni non-occidentali più facilmente digeribili.
Al contrario, insiste sul valore dell’ambiguità come spazio di possibilità: un luogo in cui l’ascolto si affina proprio perché la certezza viene negata.
Il suo lavoro resiste a qualsiasi forma di essenzialismo: ritmi e texture non sono mai legati a una sola storia, ma portano con sé tracce di incontri, memorie e punti di riferimento, assemblati in architetture affascinanti e tremendamente imprevedibili.

Hai vissuto e suonato in contesti culturali e club molto diversi — dal Cairo a Berlino, dall’Uganda all’Estonia. Come ha influenzato questo costante movimento la tua idea di “casa” come artista?

Da quando mi sono trasferito dal Cairo dopo il liceo, “casa” non si è mai legata davvero a un solo luogo. Cambia a seconda di dove mi trovo e di ciò in cui sono immerso. Ogni posto ha il proprio ritmo e valore, e cerco di assorbire tutto quello che posso e imparare da ogni esperienza che vivo.

Diresti che la tua identità artistica attuale è una continuazione delle tue radici, oppure più una rottura — o un’evoluzione — rispetto ad esse?

Direi che è più un’evoluzione. Naturalmente, la mia identità di artista è un insieme di ciò che ho assorbito da vari luoghi (sia tangibili che intangibili), ma è sempre in trasformazione, mai legata del tutto a un passato unico. È più simile a una conversazione in corso tra il punto da cui sono partito e quello verso cui mi sto dirigendo.

Che tipo di dialogo emotivo o intellettuale speri di suscitare tra il pubblico e i suoni che proponi?

Non c’è un messaggio chiaro che cerco di trasmettere, ma provo ad aprire uno spazio in cui le persone possano sentire, immaginare, riflettere e magari permettersi di essere abbastanza “fuori equilibrio” da diventare pienamente presenti — come quell’attimo in cui ti inclini troppo indietro su una sedia e il corpo interviene per non cadere. In quel momento di incertezza tutto si acuisce: la concentrazione, la consapevolezza, la sensazione di essere pienamente nel presente. È una delle sensazioni che cerco di comunicare, semplicemente perché è ciò che entusiasma me come ascoltatore: uno spazio in cui le cose si spostano quel tanto che basta da destabilizzare, in cui il terreno sembra leggermente instabile, e questa tensione e ambiguità ti portano ad ascoltare con più attenzione, perché non sei mai del tutto sicuro di cosa arriverà dopo.

Hai parlato dello stato ripetitivo della scena musicale attuale, con artisti che inseguono mode e label che impongono modelli sonori. Come resisti a questo appiattimento nel tuo lavoro?

Restando fedele al mio istinto e tenendomi lontano dalle tendenze che non risuonano con me. Ho sempre avuto un lato un po’ testardo, e questo in questo contesto mi torna utile. Mi spinge a mettermi alla prova, a esplorare altri approcci (e a divertirmi nel farlo), invece di salire sul treno del suono “di moda” solo per un tornaconto personale. Per me quel tipo di scorciatoia assomiglia più a una transazione che a un atto creativo — un approccio profondamente capitalistico alla musica.

Trovo molto più gratificante correre questi rischi, sia con il pubblico che con me stesso. Restare nella comfort zone e attenersi al territorio conosciuto può sembrare privo di rischi, ma la connessione reale che nasce dal condividere qualcosa di più impegnativo è infinitamente più appagante rispetto a un hype temporaneo o a una validazione che svanisce non appena arriva la prossima “cosa cool”.

Ti capita mai di sentire la pressione di dover “spiegare” il tuo suono o renderlo più leggibile per certi spazi o istituzioni?

Assolutamente. Quella pressione esiste; non tutti sanno davvero cosa stiano facendo gli altri. Questo a volte porta a un approccio superficiale, in cui il lavoro reale, il suono e l’intenzione che lo sostiene vengono messi in secondo piano a favore di metriche, ottiche, assunzioni o narrazioni che si prestano a didascalie ordinate. Così ti viene chiesto di spiegarti solo per essere visibile, di tradurre qualcosa di intuitivo in termini che risultino più commerciabili o familiari.

Ma cerco di resistere all’idea di spiegare troppo o semplificare il mio suono solo per renderlo più digeribile. Una parte di ciò che apprezzo nella musica è l’ambiguità e tutto ciò che non si lascia facilmente classificare. Preferisco lasciare spazio all’interpretazione, anche se questo significa che non sempre rientro in una definizione precisa, piuttosto che limare gli spigoli e rendermi più leggibile solo per compiacere un sistema che in realtà non ascolta davvero.

Cosa pensi dell’uso del termine “tribal” nella scena musicale contemporanea?

Problematico e superato. Shawn Reynaldo lo ha spiegato molto bene nella sua newsletter First Floor, analizzando come il termine rifletta spesso un’inquadratura pigra ed esotizzante dei suoni non occidentali; lui lo ha articolato molto meglio di quanto potrei fare io.

Pensi che il futuro della musica underground risieda nei formati più interdisciplinari? O il dancefloor rimarrà sempre uno spazio chiave, secondo te?

Credo e spero con convinzione che il dancefloor resterà sempre lo spazio centrale. È comunitario, fisico e immediato in un modo impossibile da replicare altrove. È vero che c’è un’espansione crescente verso formati interdisciplinari, ma io li vedo più come complementari che come primari. Possono arricchire l’esperienza, ma non sostituiscono l’energia e la connessione che nascono sul dancefloor.

I tuoi DJ set sono davvero intensi — un’esperienza che consiglio a tutti. Hai un metodo particolare di selezione dei brani? Ad esempio, come è organizzata la tua libreria “virtuale”?

Grazie! Di solito scelgo i brani seguendo l’istinto; c’è molto sentimento dietro. Mi concentro nel costruire una narrazione fatta di tensione, sollievo e momenti ambigui, con qualche deviazione inaspettata per sorprendere. A volte inserisco qualcosa che sembra fuori contesto solo per spostare l’energia della sala. Mi piace quando le persone si sentono leggermente fuori equilibrio — non confuse, ma pienamente attente, pensando: “Non mi aspettavo di ballare su questo (o addirittura di apprezzarlo), e invece sì.”

La mia libreria è un caos attentamente curato. Col tempo ho creato centinaia di cartelle, sottocartelle e sistemi di nomi particolari — alcuni basati su combinazioni di generi, epoche, energie, atmosfere; altri su texture, colori, peso emotivo e altri riferimenti astratti e personali. Immagino che chiunque altro provasse a orientarsi si perderebbe del tutto, ma per me è come una mappa mentale in cui so esattamente dove vivono certi suoni.

Il tuo suono può sembrare un’espressione della stimolazione eccessiva di oggi — frammentato, tattile, in costante mutamento. Consideri le tue produzioni come un modo per elaborare o dare senso all’ambiente in cui sei cresciuto?

A questo punto, sento che riguarda meno l’ambiente esterno in cui sono cresciuto e più ciò che ho interiorizzato nel tempo — quello che è rimasto con me, ciò che ha plasmato il mio gusto, ciò che ancora stimola la mia immaginazione, musicalmente e culturalmente. È un mix di punti di riferimento, ricordi, impronte emotive, cambiamenti di prospettiva. Alcuni posso ricondurli con chiarezza, altri sono più inconsci. A volte parto da un ritmo o da una texture specifica di cui so perché mi attrae, altre volte inseguo una sensazione che non riesco a nominare. Ora sto lavorando proprio su quelle parti che non sono ancora del tutto emerse. È questo che guida molti dei progetti su cui sto lavorando.

Se potessi descrivere la tua musica con un’immagine, quale sarebbe?

Credo sarebbe un albero con molti rami che si estendono in direzioni diverse, ma tutti collegati allo stesso terreno. Alcuni rami hanno molte foglie e frutti, altri invece lentamente si spengono e cadono quando il loro tempo è passato.

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