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IMO: MUTONIA EASTER EXPERIENCE

words: Mario Darchetti

04.06

IMO: MUTONIA EASTER EXPERIENCE

IMO: MUTONIA EASTER EXPERIENCE

Interno, notte. Porta del bagno che si chiude. Sento il mio amico di DJ Mag parlare con un ragazzo dell’entourage di Orsini. «Per noi – dice quest’ultimo – il Cocoricò è un tempio». Come se fosse una verità che andava scolpita nel marmo. Volevo dire qualcosa, inserirmi nella conversazione, ma non avevo motivo per argomentare, tanto meno per contraddirlo. Lo pensavo anche io, a modo mio. Il Cocoricò è un tempio. Anche se non ci avevo mai pensato in questi termini.

Avevo passato la giornata a rincorrere simboli. A Rimini mi ero fermato davanti al Tempio Malatestiano, bianco e marziale, con i suoi archi a tutto sesto e l’arroganza di chi si crede eterno. Più tardi, a Santarcangelo, avevo scattato una foto a un vecchio cartello arrugginito al centro di Mutonia: “TEMPIO METALMECCANICO”, recitava. Tre templi in un giorno solo. Troppi per non pensarci. Il sacro e il profano. Malatesta, techno e ferro industriale.

Era la notte del Sabato Santo, e la piramide del Cocoricò non sembrava un club, ma un obelisco acceso, un prisma alchemico. Quella notte, al Cocco, non si celebrava semplicemente un party: si officiava la terza edizione di un rito pagano contemporaneo, Mutonia Easter Experience. Un’epifania danzante che avveniva mentre, pochi chilometri più in là, al Tempio Malatestiano, le campane intonavano la Pasqua cristiana. Due templi, due liturgie. Una all’alba del Rinascimento, l’altra in piena era post-umana.

Nel XV secolo Sigismondo Pandolfo Malatesta, condottiero e mecenate, aveva chiamato a raccolta i più grandi intellettuali e artisti del suo tempo — Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Basinio da Parma — per costruire un tempio profano alla sua grandezza, camuffato da chiesa. Il Malatesta voleva fare della sua Rimini una capitale dell’intelletto e della bellezza. Un Tempio, appunto, dove la Romagna non fosse periferia ma centro. Così convocò il sapere, lo scolpì nel marmo, lo fuse con l’eresia. Fece del suo tempio un palinsesto di simboli, un organismo esoterico.

Cinque secoli dopo, la Romagna replicava il mistero. Negli anni Novanta, questa terra che sa di sabbia e ribellione divenne uno degli epicentri della controcultura europea. Il Cocoricò attirava pellegrini elettronici da tutto il continente, mentre Mutonia prendeva forma tra i rottami di Santarcangelo, nuova colonia ribelle di artisti. La Romagna ha sempre avuto questa vocazione: attrarre spiriti liberi e iconoclasti, dal Medioevo alla rave culture. Un territorio iniziatico, dove ogni generazione trova il proprio linguaggio per invocare la trascendenza.

Ora, quelle forze tornavano a intrecciarsi sotto un’unica volta notturna, in questa Easter Experience dove la resurrezione non era del corpo di Cristo, ma della coscienza collettiva. La conversazione in quel bagno continua e, perso tra i miei viaggi, catturo un’altra frase, da scolpire nel marmo. «Questi ragazzini non sanno un cazzo». Quanto è vero. Il Cocoricò era clubbing culture prima che il termine esistesse, quando ancora nessuno osava chiamare “cultura” ciò che accadeva di notte. Nei primi anni Novanta, mentre Berlino si leccava le ferite del Muro, e mentre Ibiza era poco più che una dozzina di chiringuitos e capre stordite dal sole, la Romagna era già caput mundi della notte elettronica. Non era intrattenimento, era trascendenza popolare. In questa striscia di costa apparentemente frivola, il futuro si è acceso prima: una miccia innescata tra il sound e l’anticonformismo, tra la macchina e la massa. E il resto d’Europa veniva a prendere appunti.

Ciò che rendeva quella notte di Pasqua ancora più densa di simboli era la consapevolezza che il Cocoricò stesso, quel tempio di vetro e suono, era risorto da una propria passione. Era fallito, affondato sotto il peso delle sue stesse leggende, svuotato come un idolo abbandonato. E poi, come in ogni racconto gnostico degno di questo nome, è tornato. Non uguale a prima, ma rianimato. Come il corpo di Osiride ricomposto pezzo per pezzo. Come la Romagna dopo l’acqua.

Perché anche la terra attorno, quella che si stende tra Rimini e Cesena come un ventre fertile e umido, porta ancora i segni delle alluvioni. Acqua nera a bordo strada, memoria fangosa nelle case. Ma la Romagna non è terra che accetta il lutto. È entità che rigenera, che prende le rovine e ci costruisce sopra i sogni. Lo ha fatto il Cocoricò, riaccendendo la sua Piramide per nuovi adepti. Lo aveva fatto Mutonia, costruendo una città viva tra i resti della civiltà industriale.

Mentre scrivo queste righe, il Cocoricò pulsa sano come un cuore ritrovato, e la Romagna si è rialzata fiera, ma Mutonia è in pericolo.

Eppure, in un tempo dove tutto si consuma e si dimentica, Mutonia resiste. Esiste. Vive. Nonostante le carte bollate, le sentenze, i tentativi di “normalizzazione”. Nonostante chi vorrebbe che la bellezza parlasse solo il linguaggio dell’ordine e della proprietà. A vederla oggi, Mutonia è insieme rudere e profezia, un monumento al futuro che non abbiamo voluto, fatto con ciò che abbiamo scartato.

Come i templi gnostici sparsi nel deserto, Mutonia custodisce un sapere che non si può tradurre nei codici catastali: quello del recupero, dell’eccesso, della disobbedienza. Non è solo arte, ma resistenza al modello. E come il Cocoricò ha ospitato il Mutonia Easter Experience, un rito che ha saldato simbolicamente due templi — quello della techno e quello della materia mutata — anche la stessa Mutonia è divenuta una chiesa senza croce, una liturgia permanente del possibile.

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