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Fashion

Dal com(merch)io al merch musicale

words: Luca Cioffi

25.09

Dal com(merch)io al merch musicale

Dal com(merch)io al merch musicale

‘’La storia non si fa al fronte, ma tra la gente che grida all’unisono ad un concerto’’ disse Kurt Cobain in un intervista ad un’ente televisivo americano del 1995, che indagava, tra i testi dissacranti dell’artista, la sua natura socio-culturale. Quella volta la musica in diretta nazionale, si atteggiava ad interprete di una volontà comune, diventando l’intermediario tra pubblico e istituzioni, secondo una rilettura più ampia dell’impegno sociale della musica. Secondo Cobain la musica non si ascolta solamente, ma si recita e per essere recitata, diffusa, amplificata va ‘’indossata’’, come fosse la divisa di un culto, di un attivismo umanitario che si esibisce a modo di performance.

Un rock alternativo, uomini di culto che si radunano ai piedi di palchi scalpitanti, tutti riconoscibili non solo per quel tono graffiante che viene fuori ad ogni percussione, ma da quel merchandising d’artista vestito come una ‘’divisa militare al contrario’’, dove non esistono medaglie all’onore, ma al coraggio espressivo manifestato da un movimento continuo di braccia e da un battito incessante di mani che si allungano verso quegli antieroi che si esibiscono davanti le barricate della prima fila. Questo movimento, che l’ultima generazione definirebbe ‘’merchcore’’, ha origini ben più antiche della nascita di internet ed è al principio del grunge 90s.

Quello che ad ora si chiama merch musicale, per alcune maison è principio creativo che unisce abito e suono sotto la stessa dicitura del vocabolario creativo, cioè ‘’espressione’’. Indossare la maglia di un’artista non solo significa aderire ad una corrente musicale, ma farsi portavoce di un sistema valoriale che conferisce alla musica un suono che non sia solo d’ascolto, ma attivo, che faccia attivismo. Dai moti giovanili degli anni ‘60, nati sotto un cielo fiorato hippie, a quelli degli anni duemila, sorti dalle macerie della digitalizzazione, il merch d’autore è sopravvissuto alle intemperie storico-culturali, innovando la sua immagine. Un’immagine che si fa costosa, esclusiva ma la cui natura rimane popolare, in nome di un suono che non ha mai preteso poteri e onori ma che rivendica il diritto all’ascolto, al volume e ad un’immagine autentica.

La moda si è sempre chiesta se ci fosse un capo principe, un capo simbolico capace di innescare un movimento estetico ma al contempo culturale, capace di giungere alle porte del potere e presentarsi con un unico firmatorio: l’arte, in questo caso quella musicale. È il caso di artisti come Kurt Cobain, Jimmy Hendrix, Rolling Stones che dietro a t-shirt e denim hanno inciso canzoni che si non ascoltavano solo ma si vedevano e si manifestavano.

Il primo fu proprio il frontman dei Nirvana che, per la copertina di Rolling Stones dell’aprile del 1992, indossò una t-shirt bianca con sopra scritto: ‘’Corporate magazine still suck’’. La frase era una provocazione alla stampa istituzionale, al veto espressivo, all’imposizione di un conservatorato che lasciava alla musica solo la forma sonora, ma che imponeva un’immagine, un ritmo melodico ed un volume decisamente più basso. La maglia divenne in breve tempo un emblema e venne riprodotta in serie, venduta per alcuni dollari alle porte dei concerti dell’artista.

La storia si ripete ma senza alcuna scritta ricamata nel 1993, quando viene rilasciato il video musicale di Silver, ambientato nel garage della sua abitazione di Chicago. A destare curiosità è da subito quel maglione a righe rosse e nere indossato da Cobain, con un taglio centrale, appartenente ad un immaginario slouchy. Quella maglia richiamava uno dei costumi di scena più noti della cinematografia di quei tempi: il terrificante Freddy Krueger in Nightmare. Seppure non sia mai stato confermato da Cobain, alcuni lessero in quella scelta estetica un atto di protesta e sensibilizzazione sui temi dell’infanzia. Se Krueger era un infanticida, quello che spesso disse Cobain era che la sua giovinezza era stata consumata da un senso di inadattamento, di diversità e dall’ombra della solitudine. Quella maglia ricompare anni dopo nelle collezioni di Saint Laurent guidato da Hedi Slimane, precisamente nella FW13, in occasione della quale intervenne anche Courtney Love, moglie di Cobain. Ancor prima di Slimane, Takahiro Miyashita, per la FW03 di Number (N)ine, recuperò il maglione di Cobain e Kruger e gli dedicò una delle collezioni più punk della storia, riportando l’abito al ruolo di autore del giudizio collettivo.

La collettività richiama anche alle ondate di pubblico che si infrangevano ai piedi dei Rolling Stone nel loro debutto londinese, di cui rimane fissa nell’immaginario comune la maglia rappresentante una bocca con lingua e labbra rosse. Divenuta successivamente simbolo della band, la ‘’bocca’’ era un richiamo alla fluidità sessuale, all’erotismo bannato dai media conservatori, ed ad un linguaggio popolare, per l’appunto ‘’pop’’, costruito su immagini caricaturali dei desideri nascosti dell’uomo. Dietro quel logo si nasconde un merch fatto da t-shirt stampate commerciate da tutti i grandi nomi della produzione fashion, e reinterpretate da designer come Marc Jacobs per la sua seconda linea Heaven, tributo agli anni ‘90 di cui era protagonista la combo ‘’denim e t-shirt’’, dove quest’ultima era spesso il cimelio rock dell’armadio dei genitori.

Sempre per Heaven è stata rilasciata la collezione ideata in collaborazione con gli Smashing Pumpkins, che danno nuovo lustro a quel preppy hardcore alternato da micro fiocchi e stampe digitali. Ad aggiungersi al guardaroba pop-rock-punk d’archivio moda ci sono i Ramones e le grafiche sleeze recuperate da Vetements, il romanticismo metal degli ACDC che si intesse sulle sete di Gucci e le stampe di Givenchy, e gli immaginari Speed Hunters di Balenciaga che tributa i festival elettro punk con un merch da collezione.

Michèle Lamy x HEAVEN by Marc Jacobs

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