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IN CONVERSATION WITH: Sabatino Cersosimo

words: Tatiana Tardio

27.11

IN CONVERSATION WITH: Sabatino Cersosimo

IN CONVERSATION WITH: Sabatino Cersosimo

Nel lavoro di Sabatino Cersosimo, la materia respira.
Le superfici metalliche, ossidate dal tempo e dall’acqua, diventano luoghi in cui la trasformazione non è soltanto un processo estetico, ma una condizione vitale. Le sue opere su acciaio raccontano l’incontro tra controllo e casualità, tra gesto e reazione chimica, tra il visibile e ciò che rimane sospeso oltre la superficie. In questo equilibrio precario, dove ogni goccia d’acqua può mutare il destino di un’immagine, la pittura si fa organismo vivo capace di cambiare, di continuare a esistere anche dopo la sua apparente conclusione.

Il suo linguaggio è costruito attraverso stratificazioni: il colore a olio convive con la ruggine, la precisione manuale con l’imprevedibilità naturale. È una pratica che riflette, in fondo, la condizione umana: quella tensione costante tra volontà e abbandono, tra desiderio di controllo e accettazione del tempo.

Abbiamo incontrato l’artista durante l’evento WORK IN PROGRESS prodotto da Tait Gallery e Sintetica Torino per parlare di materia, trasformazione e fiducia nel processo creativo: un dialogo in cui il gesto pittorico si intreccia con la filosofia del vivere.

Il tuo lavoro esplora spesso i confini tra visibile e invisibile. In Work in Progress la trasformazione diventa una condizione vitale. In che modo questa idea risuona con il tuo processo artistico?

Il mio lavoro, ad eccezione di certi studi su carta, non è immediato né spontaneo: richiede un vero e proprio iter tecnico. Ogni opera su acciaio è composta da diverse lastre che saldo tra loro. Questo processo prevede varie fasi: dalla pulitura alla saldatura, dalla carteggiatura fino all’ossidazione ottenuta con acqua e sale o altre componenti naturali e, infine, all’aggiunta delle parti dipinte. Questa costruzione per frammenti mi fa pensare alla vita quotidiana, fatta anch’essa di momenti che si ripetono, gesti che si stratificano e si trasformano giorno dopo giorno. Per quanto ogni opera nasca da un metodo ormai consolidato, la tecnica dell’ossidazione introduce sempre una componente di imprevedibilità che rende ogni quadro un’esperienza unica.

La materia occupa un ruolo centrale nella tua ricerca. Cosa ti attrae di un determinato medium o texture e come capisci quando un materiale rivela tutto il suo potenziale espressivo?

Utilizzo due medium principali: i colori a olio e la ruggine, frutto del processo di ossidazione. L’olio è una tecnica classica che permette un lungo tempo di lavorazione: questo è un vantaggio, ma anche un limite. Da un lato mi concede la possibilità di intervenire più volte sul dettaglio prima che il colore si asciughi; dall’altro, mi costringe a fermarmi, ad avere pazienza, ad accettare il tempo di attesa necessario per proseguire. È un equilibrio continuo tra impulso e limite tecnico. Parallelamente, l’ossidazione rappresenta per me una sorta di terapia. Sono sempre stato molto attento al controllo di ciò che faccio, anche nella mia vita quotidiana, ma questo processo mi spinge ad accettare l’imprevedibile, a lasciar andare una parte del risultato.

Il concetto di controllo e casualità sembra attraversare tutto il tuo lavoro. Come si manifesta questo equilibrio durante il processo creativo?

Durante il mio processo di lavoro tendo sempre a orientarmi verso un’immagine, una scena che ho chiara in mente, ma spesso qualcosa interviene e suggerisce una nuova direzione. Può accadere, per esempio, durante la fase dell’ossidazione: solitamente ne “disegno” il percorso, ma quando mi allontano scopro poi che l’acqua, data la sua ovvia fluidità e relativa assenza di densità, ha reagito in modo imprevisto, sguizzando oltre i confini prefissati.

All’inizio lo percepivo come un errore, e spesso accuso ancora oggi un momentaneo senso di impotenza, ma col tempo ho imparato ad accettarlo, a lasciarmi sorprendere. Alcune forme che emergono dall’ossidazione diventano poi la traccia su cui intervengo con il colore a olio, dopo aver rimosso lo strato superficiale di ruggine per conservarlo in fiale di vetro a mo’ di archivio mnemonico di ciascun’opera. Altre zone ossidate scelgo invece di non toccarle, perché mi colpiscono nella loro texture e nelle figure che creano nella mia mente.

Il mio processo creativo è così: un continuo dialogo tra decisione e accettazione, tra costruzione e resa. Anche quando considero un quadro finito, so che in realtà non lo è mai del tutto. L’ossidazione continua a trasformare l’opera nel tempo, invisibilmente, anche sotto gli strati protettivi — una lenta proliferazione microscopica, come se il lavoro avesse una propria vita autonoma.

Quindi l’imprevedibilità è parte integrante del risultato finale.

Assolutamente. Alcuni quadri funzionano meglio di altri, ma fa parte del gioco: quando si lascia spazio alla casualità, non tutto può andare come previsto. A volte un effetto che a me non convince, risulta invece perfetto agli occhi di chi guarda.
Questo mi affascina: l’opera diventa un terreno di percezioni soggettive, dove la mia visione non coincide per forza con quella degli altri. È un esercizio di fiducia nel processo creativo e, in fondo, anche nel caso.

Hai accennato al rapporto tra l’opera e il tempo. Come reagiscono le persone di fronte al fatto che i tuoi lavori possano mutare nel corso degli anni?

Mi è capitato che alcune persone apprezzassero molto i miei lavori su acciaio, ma fossero intimorite dall’idea che potessero trasformarsi nel tempo. Preferivano i miei lavori su tavola (il supporto che ho prediletto prima dell’acciaio), perché li percepivano come più “stabili”.
In realtà, i cambiamenti che ho osservato finora sono stati spesso lievi: in certi casi quasi impercettibili, in altri più evidenti. Alcune superfici, col passare degli anni, hanno iniziato a mostrare nuove linee, piccole venature e filigrane prima invisibili, come se il tempo avesse fissato quelle particelle di cui è composto il pulviscolo visto solo in controluce.
Mi piace pensare che, proprio come le persone che li osservano, anche i miei quadri continuino a evolversi, a rivelare parti nascoste.
Credo che ogni spettatore porti con sé una traccia dell’opera d’arte – magari in una dimensione inaccessibile e inconscia – una memoria che a sua volta può trasformarsi in pensieri, gesti o cambiamenti interiori. Non possiamo sapere come un’opera agisca su chi la guarda: è un mistero affascinante.

Che ruolo ha la musica nel tuo processo creativo?

La musica è una fonte costante di ispirazione, insieme alla letteratura, alla mitologia, al cinema. A volte nasce tutto da un brano, da un testo, o da un momento in cui musica e immagini si incontrano nella mia mente. Può influenzare i miei pensieri ancora prima che io inizi a dipingere, oppure accompagnarmi durante la lavorazione. Nelle fasi più delicate, in cui serve concentrazione, ascolto soprattutto musica classica, da quella barocca a quella più romantica e drammatica, ma anche il cantautorato e il dream-pop.
Durante i momenti più “meccanici”, invece, come la lavorazione delle strutture in alluminio, le saldature o la stesura delle vernici finali e cere, scelgo musica più vivace, che spazia tra la darkwave, il post-punk e l’elettronica.

Se i tuoi quadri avessero un suono, quale sarebbe?

Credo che seguirebbero lo stesso andamento dei miei lavori: partirebbero da un suono profondo, scuro, quasi sotterraneo, per poi aprirsi verso toni più luminosi, più rumorosi.

Nelle zone d’ombra immagino una musica cupa, quasi ipnotica; nelle parti più luminose, invece, qualcosa di più aperto, che potrebbe spaziare dal jazz all’elettronica, fino alla musica classica più briosa.
In fondo, anche nei miei quadri c’è sempre questa ambivalenza: il buio e la luce, il silenzio e il rumore, il visibile e l’invisibile.

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