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Music

UNCOVERS: CULTO

words: Davide Urbani

24.09

UNCOVERS: CULTO

UNCOVERS: CULTO

Nel settembre 2025, CULTO arriva alla sua quinta edizione con un programma che riflette la trasformazione del festival da collettivo underground a punto di riferimento della scena musicale torinese. Il festival si svolgerà il 26 e 27 settembre tra tre location selezionate con cura: Paint It Black, Cripta 747 e Notorius Club. Ogni spazio, dall’intimo e sperimentale al consolidato, diventa parte integrante del racconto, tracciando un percorso che attraversa Torino e ne mette in luce angoli spesso invisibili, intrecciando musica e arti visive in un’esperienza immersiva. L’edizione di quest’anno privilegia suoni immediati e lo-fi, con una presenza significativa di performance dal vivo, favorendo un ascolto diretto e la connessione tra chi crea e chi partecipa. La comunicazione visiva si distingue per un design essenziale, che amplifica immagini delle edizioni passate, restituendo memoria e continuità al percorso del festival, incarnando l’ethos del collettivo: sperimentazione, autenticità, relazione con il territorio.

In un contesto culturale e sociale in continua trasformazione, CULTO si propone come un atto di resistenza e affermazione dell’indipendenza. La scelta di restare lontano dalle logiche dell’intrattenimento commerciale e di mantenere prezzi accessibili, pur di fronte alle difficoltà economiche, evidenzia l’impegno a preservare uno spazio di libertà creativa. Le location non sono meri contenitori, ma co-protagoniste che modellano l’esperienza, rivelando contraddizioni e bellezze nascoste della città e trasformando il festival in un viaggio tra sonorità e visioni urbane.

Questa intervista esplora le motivazioni e le scelte alla base della curatela artistica e della selezione degli spazi per l’edizione 2025. Il collettivo racconta come l’identità del festival si sia evoluta negli anni, le tensioni culturali e sociali affrontate e le ragioni che li hanno spinti a mantenere una coerenza rigorosa nel loro percorso. Ne emerge il ritratto di un progetto in costante trasformazione, capace di costruire comunità e al contempo restare fedele ai principi fondanti che ne hanno ispirato la nascita.

Come si è trasformata l’identità del festival dalla prima edizione a oggi, e quali tensioni – culturali, sociali, artistiche – vi hanno spinto a portarlo avanti con questa coerenza?

A parte che bella per la coerenza:)

Dal punto di vista visivo e di comunicazione, in 5 anni abbiamo dapprima cercato un linguaggio il più semplice e diretto possibile, nato da un’esigenza fattuale (la stessa da cui è nato CULTO) – ovvero quella di ritrovarsi insieme in una situazione di clubbing, che, nel periodo della pandemia, avevamo perso. Per cui la prima edizione è stata molto punk, lo eravamo anche noi all’epoca. Sicuramente eravamo alle prime armi nell’organizzazione di un festival e ancora non avevamo chiaro dove saremmo voluti arrivare sebbene il punto di partenza fosse evidente a tutti.

Negli anni la comunicazione visiva ha sempre cercato in primis di essere coerente con il tema del concept e nella linea artistica intrapresa in quell’edizione, senza tralasciare mai la dimensione del divertimento, della sperimentazione, del gioco e dello sbagliare. Insomma in questi anni CULTO è stato un playground collettivo. Abbiamo utilizzato l’intelligenza artificiale quando ancora non era di uso comune, scannerizzato la città, estrapolato simboli di argilla, cercato di fare non tanto quello che andava di moda ma ciò che ci permetteva di non annoiarci mantenendo una coerenza a 360 gradi con tutte le sfaccettature del collettivo.

Quest’anno, in cui celebriamo i nostri primi 5 anni, siamo un po’ tornati alle origini. Negli anni abbiamo cercato di combattere una sorta di complessità in cui facilmente ci incagliavamo data la trasversalità dei temi che abbiamo deciso di affrontare. Quest’anno ci siamo imposti di mantenere un tono il più essenziale possibile, che andasse dritto al punto; anche dal punto di vista grafico/visivo, spogliando le grafiche da qualsiasi orpello visivo, lavorando principalmente con macro ingrandimenti del materiale fotografico delle scorse edizioni.

Che cosa c’è dietro la vostra curatela artistica, e che tipo di ascolto volete costruire per chi viene al festival?

La curatela artistica così come l’identità del festival ha seguito il corso dei cambiamenti delle anime che gli danno vita così come degli spazi più o meno fisici che lo accolgono. Il comune denominatore, che ha preso le varie forme allegoriche che hanno caratterizzato le varie edizioni, (la wunderkammer, il rabdomante, etc…) hanno sempre portato a una ricerca che puntava al sottosuolo o al nascosto, per portare alla luce delle dimensioni sonore inedite non solo dal punto di vista della proposta musicale ma anche da quello degli spazi, per lo più non convenzionali per la fruizione della musica a Torino. La forma delle cose da portare alla luce cambiano sempre: l’aggregazione, la forma della vita notturna, vari tipi di confronti. Quest’anno andiamo a cercare tutto questo focalizzandoci sul lo-fi e l’immediatezza dei suoni, che ci sembra abbia una diretta relazione con un modo di vivere la musica e lo stare insieme che torna ad essere più semplice e meno performativo.

Si, sicuramente quest’anno c’è l’intenzione di provare a portare l’ascoltatore più dritto al punto di arrivo – che è sempre stato per noi la musica ovviamente, provando a portare a Torino artistx interessantx e rappresentantx un certo tipo di ricerca, a volte anche decisamente fuori dagli schemi soprattutto per un contesto clubbing… Se negli anni passati non ci siamo preoccupati troppo di quanto la nostra selezione potesse convergere in una direzione unitaria (preferendo più creare traiettorie parallele capaci di accogliere ricerche diverse ed eterogenee) quest’anno abbiamo deciso che questa linea ci doveva essere e doveva avere una forma chiara. Ricercando l’immediatezza, abbiamo provato ad incentrarci non sulla performatività bensì sull’atto vero e proprio – quest’anno ci saranno molti più live dello scorso anno soprattutto sul venerdì ed il sabato pomeriggio – che arriva diretto a chi partecipa e che porta in primis a connettersi spontaneamente con l’esperienza del festival, in “un dialogo fluido tra chi crea e chi ascolta”, come diciamo nel nostro manifesto.

Dalla Vanchiglietta, al centro storico fino a un club carico di stratificazioni come il Notorius, ogni location sembra scelta per raccontare una Torino meno visibile, ma profondamente reale. Quanto conta per voi lavorare con gli spazi, e cosa significa, oggi, per un festival come CULTO, dialogare con il paesaggio urbano e controculturale della città?

È vero, al quinto anno, avendo cambiato quasi sempre tutte le location, possiamo dire di conoscere (un po’) cosa succeda in città e le sue contraddizioni. Siamo passati dalla Cavallerizza Reale a spazi indipendenti fino al Notorius, abbiamo provato a raccontare attraverso le location una Torino più sfuggente, che solitamente appare meno, ma reale. Non cerchiamo spazi come semplici contenitori, ma come parte integrante del racconto che vogliamo costruire, provando a farli agire come co-protagonisti dell’esperienza.
Siamo convinti che la struttura dello spazio in cui ci muoviamo, influenzi direttamente le nostre emozioni e i pensieri che formuliamo, per questo crediamo che sperimentare nella ricerca degli spazi aiuti CULTO a tenere vivo uno dei principi per cui è nato: crediamo che fare festa serva per stare bene e scoprire nuovi modi di fare cultura.

Da un certo punto di vista è tutto quello che conta. in un contesto che chiede le città sempre più illuminate ma solo dalla parte “giusta”, andare a scavare dalla parte in cui non ci sono lampioni è un atto di resistenza che dà spazio ancora a forme di connessioni più spontanee. Torino forse rimane uno dei pochi spazi ampi di espressione libera fra le principali macrorealtà urbane italiane, ma l’augurio è che anche città più vittime di altre dinamiche possano trovare sempre più forme di eventi di questo tipo.

CULTO non si limita mai all’ascolto musicale: costruisce contesti, connessioni, modi diversi di abitare lo spazio e il tempo del festival. Quanto è importante per voi ciò che accade attorno al suono – nella forma, nei gesti, nelle visioni – nel creare un’esperienza che sia realmente viva e collettiva?

È uno degli aspetti fondanti di CULTO. Non ci limitiamo mai solo all’ascolto musicale: abbiamo sempre provato a costruire contesti diversi, partendo dal presupposto che esplorando la trasversalità intrinseca alla dimensione del clubbing, potessimo facilmente ritrovare la sua funzione di collante sociale. Abbiamo così lavorato sul differenziare il festival in diversi momenti: il venerdì da sempre è stato dedicato alla parte più sperimentale, il sabato pomeriggio ai talk e ai live più listening, il sabato sera più alla dimensione del clubbing. Tenendo in mente l’importanza di coinvolgere spazi non abitualmente utilizzati ad accogliere eventi di questo tipo (ad eccezione dei club).

Le installazioni, i talk (in passato abbiamo trattato temi come le trasformazioni della scena, la riduzione del danno e la riappropriazione degli spazi), gli exhibit, sono stati dei mezzi anche per dare vita a delle esperienze che potessero accogliere intorno a sé più sfaccettature della dimensione del clubbing e della fruizione della musica, le così dette “pratiche correlate” che intervengono in questa dimensione.

Il nostro approccio nasce da un presupposto critico: ci sono sempre meno spazi per fare festa, e quelli rimasti esistono per vendere drink anzichè creare comunità, per questo ogni nostro evento è pensato come risposta a questa mancanza, immaginando che la festa/evento possano essere un momento di trasformazione, non solo di intrattenimento. Abbiamo sempre immaginato in primis ogni elemento di CULTO come funzionale a facilitare l’incontro tra persone/idee oltre alla scoperta di nuovi linguaggi.

Che significato assume oggi – anche in termini politici – scegliere di restare in una dimensione indipendente, raccolta, distante dalle dinamiche dell’intrattenimento più esposto e spettacolare?

Per noi mantenere una linea indipendente ha significato rivendicare una propria libertà di scelta e preservare un nostro spazio di manovra, dando priorità a ciò che volevamo davvero proporre, più che a logiche di funzionamento. Anche attraverso la scelta di spazi non convenzionali, attivati per una funzione diversa da quella originaria, abbiamo ricercato un modo per affermare che anche altri luoghi, non nati per il clubbing e la musica live, potevano comunque diventare spazi di fruizione musicale, in una Torino che da anni vedeva la chiusura di luoghi dedicati alla cultura (anche) indipendente.… È stato anche un modo per esprimere che ci sono delle correlazioni tra musica elettronica e le pratiche che le ruotano attorno, e che, quindi, parlare di clubbing (e fare clubbing), significa accogliere una serie di fattori e sfaccettature in primis culturali che dialogano con un sistema complesso.

Inoltre, restare indipendenti ci ha imposto una riflessione concreta: in questi anni abbiamo cercato di mantenere prezzi il più possibile accessibili, scontrandoci però con la difficile sostenibilità degli eventi underground. Questo ha comportato sacrifici significativi: quando abbiamo iniziato eravamo 13 soci fondatori (oggi siamo rimasti in 9) ed abbiamo lavorato gratuitamente per l’associazione per questi cinque anni. Per noi ne è valsa la pena, perchè in questo modo siamo riusciti a reinvestire tutto nell’attività culturale, costruendo una programmazione spontanea e corale (un processo, come potrete immaginare, non sempre semplice!) restituendo una visione autentica e contemporanea.

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