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Music

IMO: TRANSFORMA

words: Davide Urbani

22.08

IMO: TRANSFORMA

IMO: TRANSFORMA

Ecologie sonore e rituali performativi

Arrivare a Tábor nel tardo pomeriggio è un’esperienza che ha qualcosa di cinematografico. La luce calda fiora le mura antiche, il lento muoversi dei turisti tra le piazze gotiche, e poi, a un certo punto, il silenzio. Quello vero, che sa di passato. Si imbocca un vicolo laterale, si comincia a scendere. Le pietre sotto i piedi diventano irregolari, la luce dell’illuminazione pubblica si dirada. Si attraversano scale immerse in vegetazione fitta, qualche lucciola qua e là, e poi lo sguardo si apre su CESTA: un ex mulino, rurale, grezzo, circondato da alberi e acqua. Da qui, il rumore del mondo cambia tono. È in questo luogo appartato, sospeso nella storia, che ogni anno prende vita Transforma, festival che più che un evento sembra un rituale collettivo, un incontro necessario. Dal 3 al 6 luglio 2025, Tábor ha aperto le sue viscere a una comunità internazionale di musicisti, artisti e performer. Nessun palco principale, nessun headliner. Solo una tensione costante a creare uno spazio altro, in cui il suono non sia solo intrattenimento ma una forma di pensiero, di presenza, di trasformazione.

Il cuore pulsante di Transforma è CESTA, che per quattro giorni si è frantumato in ambienti eterogenei, ognuno con una precisa identità spaziale ed emotiva. Nel primo giardino, lo Sklep è più un’esperienza sensoriale che un palco. Una stanza buia, stretta, cruda. Blocchi di cemento pendono dal soffitto come sculture minacciose. I LED tagliano l’aria come fendenti. Qui si balla stretti, con la pelle a contatto, nel buio totale. Lo spazio forza i sensi, e forse è proprio questo a renderlo così potente: ogni set qui dentro sembra un viaggio mentale. Poco più in là, la Garaz, ex cascina recuperata, offre un contrasto: sound system orientati ai bassi profondi, ritmiche spezzate, umide, sudore e fumo. I muri ruvidi trattengono le basse frequenze e restituiscono una sensazione tattile, quasi fisica del suono. Attraversata la zona food, si trova Zahrada Les, il giardino vero e proprio: un angolo di paradiso rurale, circondato da un ruscello, punteggiato di chill zone e sempre pervaso da un profumo d’incenso. Ogni notte, il falò centrale è diventato punto di raccolta: si parlava, si ascoltava, ci si scaldava. Qui si alternano un palco per live act intensi e una postazione informale – frontale alle chill zone – dedicata all’ambient, dub e drone, attiva in uno stato di semi-continuum per tre giorni. Infine, oltre i confini interni di CESTA, si apre lo Stodola, un ambiente interamente in legno e avvolto da lunghe tende rosse. Questa stanza intima è riservata a performance live di artisti trasversali che, pur muovendosi su registri diversi, condividono il filo comune della creatività dal vivo e della sperimentazione sonora. La sua atmosfera calda, quasi sacrale, è perfetta per concerti dove la luce soffusa e controllata accompagna con delicatezza ogni nota, generando un’esperienza immersiva totale.

Transforma si distingue non solo per la straordinaria varietà delle sonorità che attraversano la sua line up, ma soprattutto per quell’orizzontalità radicale che dissolve gerarchie e pregiudizi estetici, offrendo un caleidoscopio di esperienze artistiche apparentemente distanti, eppure accomunate da un’identica tensione verso la rottura degli schemi. In questo spazio sonoro, il noise più abrasivo si intreccia alla techno pulsante, mentre grime, dub e musica ambient costruiscono un mosaico che riflette fedelmente la complessità e la frammentazione del nostro tempo.

Il primo di questi momenti è stato offerto da Dakn داكن, rapper palestinese la cui opera è segnata da un lirismo intimo e da una profondità politica rara. La sua musica si muove tra le pieghe del rap e dell’hip hop più consapevole, con testi che esplorano temi di identità, resistenza e vulnerabilità, in un equilibrio delicato tra confessione personale e denuncia sociale. La sua seconda performance a sorpresa allo Zahrada Les ha fatto emergere l’essenza stessa del festival: un rito urbano, carico di tensione e urgenza, in cui la parola diventa strumento di coesione e di liberazione. In quella cornice naturale, la voce profonda di Dakn داكن ha trasformato il palco in un altare collettivo, un luogo sacro dove il pubblico si è unito in un unico respiro, partecipando a un momento di intensa comunione emotiva e politica.

Proseguendo lungo questa linea di esperienza condivisa, il duo berlinese Hyenaz ha proposto una performance che ha letteralmente dissolto le frontiere tra artisti e spettatori. Il loro progetto, che si colloca tra elettronica sperimentale, pop avant-garde e performance art, è caratterizzato da un’estetica coinvolgente e interattiva, in cui luci, suoni e corpi si intrecciano fino a generare una singolarissima fusione. Gli Hyenaz hanno saputo creare uno spazio fluido e dinamico, un organismo pulsante in cui il pubblico non era più semplice destinatario, ma parte attiva della performance stessa. Questa radicale interazione ha trasformato la scena in un’arena di partecipazione collettiva, dove l’esperienza artistica si è espansa in una dimensione condivisa di creazione e di scambio sensoriale. Infine, Fvck_kvlt, duo emergente noto per la loro miscela di elettronica sperimentale, noise e ritualità sonora, ha chiuso questa triade con una performance che ha incarnato un climax tribale e ancestrale. Il loro sound, che amalgama texture abrasive e groove ipnotici, si muove in una zona liminale tra l’industrial e il rituale, evocando atmosfere quasi sciamaniche. In quel vortice sonoro, l’energia sprigionata si è diffusa come un’onda collettiva, cancellando ogni barriera tra palco e platea, conducendo la folla in uno stato di trance condivisa e liberatoria.

Il filo rosso che unisce questi tre momenti si snoda lungo un tracciato che va ben oltre la dimensione strettamente musicale: si tratta di una tensione comune verso la dissoluzione delle distanze – non solo fisiche ma anche emotive, simboliche, politiche – tra artista e pubblico, tra chi crea e chi riceve, tra il gesto espressivo e l’identità collettiva che lo abita. In tutti e tre i casi, ciò che accade non è una semplice esibizione, ma un processo trasformativo, in cui la musica smette di essere “prodotto” da fruire e diventa spazio rituale, territorio condiviso, atto comunitario.

Non potevano mancare altri momenti votati all’intensità emotiva: GB Clifford, ospite dello Stodola, ha regalato una performance scandita da sonorità avvolgenti e toni caldi, impreziosita da luci soffuse e dosate con cura. La sua proposta elettronica – tra melodie avvolgenti e una delicatezza ritmica – ha generato un senso di intimità inaspettato: un viaggio emotivo che, nel silenzio quasi vivido della stanza in legno, ha sospeso il tempo e raccolto il pubblico in un abbraccio sonoro sospeso. Sul versante più club-oriented, lo Sklep ha vibrato di un’energia densa e viscerale, grazie a una serie di set che hanno trasportato il pubblico in un viaggio notturno senza respiro. Mae Happyair, veterana della scena underground di Bangkok, ha inaugurato la serata con un set ipnotico e stratificato, dove techno e acid si sono fusi in un flusso oscuro e cinematico, perfetto per l’atmosfera cruda dello spazio. Il b2b tra Domizako e Miss Carriage ha elevato la temperatura: una miscela feroce di groove spezzati, bassi corposi e percussioni oblique, che ha trasformato lo Sklep in una camera pulsante, attraversata da vibrazioni collettive e da una danza sempre più viscerale. Ma il culmine è arrivato con takaDumm e Yas Meen Selectress, che si sono susseguiti in due set distinti ma complementari. TakaDumm ha spinto verso territori più astratti e industriali, costruendo un’architettura sonora frammentata ma coinvolgente; Yas Meen, DJ egiziana attiva tra Il Cairo e New York, ha portato in sé l’eco di un heritage culturale espanso nella club culture metropolitana, fondendo jungle, percussive bass, jersey club, baile funk e footwork con una consapevolezza politica e culturale che ha reso la sua selezione non solo ritmica, ma profondamente comunicativa.

Abbracciando un ventaglio eterogeneo di pratiche artistiche che dialogano tra loro in un continuum esperienziale, Transforma si rivela molto più di un semplice festival musicale. Lo si è percepito con forza durante Garden of Desires IV, la performance che ha preso forma la sera del 4 luglio nello Zahrada Les. Non c’è stato un vero inizio: solo presenze che, lentamente, affioravano dal bosco e dal ruscello, avvolte in costumi arcani, portando con sé strumenti, oggetti, gesti antichi. Si muovevano tra noi con lentezza rituale, disegnando cerchi, danzando in una coreografia che sembrava evocare il ricordo di un’umanità tribale, collettiva, radicata nella terra.

Quella stessa tensione poetica si ritrovava anche in Kameny Nostalgie, installazione collettiva allestita presso la Galerie Okraje. L’opera si configurava come un percorso meditativo, dove memorie di rovina e permanenza dialogavano con la materia e lo spazio circostante, instaurando un silenzioso confronto tra natura e arte. Fuori dai confini tradizionali della galleria, Transforma manteneva viva la sua energia trasformativa: nel cuore del centro storico, il Vozová Hrotba animava le vie con il gesto spontaneo e creativo dello skateboarding, fatto di tavole autocostruite e trick improvvisati, mentre l’alleycat – ben più di una semplice competizione ciclistica – trasformava le strade di Tábor in una mappa dinamica e poetica, tracciata dal movimento collettivo di corpi in dialogo con l’ambiente urbano.

Transforma si configura non soltanto come un festival, ma come un’esperienza viva e pulsante, emblema imprescindibile dell’autenticità e della forza dei movimenti DIY. Esso si presenta come un crocevia in cui si intrecciano molteplici forme espressive, un laboratorio culturale in cui le diversità non si disperdono in una frammentazione sterile, bensì si fondono in un’unica matrice creativa e comunitaria. Qui, la convergenza di artisti, pratiche e sensibilità divergenti testimonia la potenza di una visione condivisa capace di generare non solo bellezza estetica, ma anche speranza e resistenza – virtù imprescindibili in un’epoca caratterizzata da isolamento e disgregazione sociale.

La partecipazione a Transforma trascende la mera presenza fisica; è un impegno attivo, una forma di appartenenza che si traduce in un dialogo costante tra individui e collettività, tra gesto performativo e ascolto attento, tra sguardi incrociati e tensioni emotive condivise. Il senso di comunità che si sprigiona in ogni suono, in ogni movimento, in ogni pausa silenziosa, riconferma la vitalità di quel sentimento tribale ancestrale, quell’istinto originario di condivisione che, lungi dall’essere sopito, pulsa ancora come il cuore stesso dell’esperienza umana. Il festival si erge così a paradigma contemporaneo di come l’arte e la musica possano configurarsi come pratiche rigenerative, strumenti di coesione e veicoli di energia vitale, capaci di tessere trame sottili ma potenti tra individui, costruendo un ecosistema culturale in cui la circolazione armoniosa di emozioni e idee resta la linfa indispensabile per una comunità autenticamente viva.

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