
IN CONVERSATION WITH: NPLGNN
Giulia Maria Scrocchi
09.04.25
Fashion
Gauhar Ali: dialogo tra forma e funzione
words: Luca Cioffi
02.10
La tradizione è l’antenato storico dell’innovazione, che si ricongiunge a quest’ultima sotto una più ampia definizione di wearable design. La designer di origine pakistana ma di formazione italiana Gauhar Ali, sin dal suo esordio, al termine del suo percorso accademico in fashion design al Polimoda, sposta il concetto di abito da quello astratto a quello pratico, svincolandolo da un’aurea puramente artistica per avvicinarlo alla realtà pratica (e quindi alla logica produttiva), senza però rinunciare ad una accurata ricerca tecnica. Giovanissima ma mossa dall’ambizione di raggiungere i grandi maestri nonché suoi riferimenti creativi, Yohji Yamamoto e Martin Margiela, muove i primi passi nella scena milanese con la presentazione della sua ultima collezione ‘’Raver Chic’’.
Un guardaroba che spazia dai codici urbani delle grandi metropoli, come Tokyo e Parigi, fino a giungere all’activewear, il tutto tinto di nero, che in Gauhar Ali si presta ad una doppia interpretazione: il richiamo ad un minimalismo, per l’appunto ‘’chic’’, ma al contempo buio, come la notte di un secret-rave. La collezione è un connubio di influenze e arti che spaziano dalla street culture a quella musicale di tipo techno e house, che si intessono nel denim dark wash di giacche e nel jersey stampato di micro top.
Noi di t-mag abbiamo incontrato Gauhar Ali in occasione della presentazione della SS25, e le abbiamo chiesto di raccontarci il suo brand.
Il brand nasce dall’incontro di una mano tecnica e di un occhio innovativo. Si può così dire che tradizione ed innovazione siano i co-protagonisti di Gauhar Ali, ma quali sono i particolari che rendono omaggio alla tradizione e quali i simboli della sua innovazione?
Gauhar Ali nasce parallelamente alla mia formazione accademica, nella cornice rinascimentale di una città come Firenze dove la tradizione è padrona. Lì ho acquisito il valore del taglio di un abito e la cura nella sua progettazione, rimanendo fedele alla forma del capo su cui lavoro, innovandone però l’immagine. Tutto questo con l’utilizzo di tessuti diversi e la combinazione di culture diverse, come quella del denim e quella dell’activewear. Sono questi i codici sui quali ho costruito il mio linguaggio, in equilibrio tra forma e funzione.
Le tue origini sono diverse da quelle del contesto in cui hai studiato ed è anche grazie a questo che nelle tue collezioni si scorge un multiculturalismo, dovuto anche ad una distanza da casa, che ti ha permesso di conoscere e viaggiare. Secondo te si può parlare di “geografia della moda”? L’abito ha ancora dei confini culturali?
Sono dell’idea che ognuno di noi nasca in un contesto sociale e culturale diverso, ma sta al singolo dover capire che vi è altro e che un confine non delimita un’idea. Sono cresciuta scoprendo che non vi è nulla di universale se non il senso comune di “scoperta”, per questo cerco di spingere più in là, se non superare, ogni confine imposto dal normcore, lavorando su un design mutevole e su un’identità quanto più inclusiva.
Da qui l’idea di una collezione fluida, che non si categorizza in un genere specifico ma trae elementi da entrambi. È questa una sfida sociale ed estetica che porterai avanti con le prossime collezioni?
Mi piace l’idea di poter costruire un guardaroba condiviso, dove l’etichetta di genere non esiste ma si ragiona per feeling. Un messaggio importante che il brand accoglie sin dalla sua nascita, grazie alla progettazione di collezioni universali. La sfida è ora quanto più reale, soprattutto se sono in molti a farlo, ma questo mi rende orgogliosa di essere parte di un movimento emancipatore così vasto.
La musica è stata fondamentale per il tuo percorso creativo, come dimostra la FW24; un omaggio al look del DJ Richie Hawtin. Una sorta di cornice vivida dove immaginare gli abiti prender vita. Ma da dove nasce questo contatto?
Non saprei attribuirgli una data precisa, direi piuttosto che nasce dalla mia volontà di progettare abiti che siano funzionali. La musica, sopratutto quella elettronica, richiede movimento, una gestualità che l’abito deve permettere e che accompagna il corpo nel massimo della sua espressività. Un ascolto che supera lo stato di immobilità e che si intesse nel capo. Il “raver” è un indomabile ascoltatore. Sin da giovanissima ho sempre guardato al look dei clubber rimanendo colpita dall’utilità di ogni capo che indossavano: dalla giacca in raw denim alla camicia intagliata, tutto era stato progettato accuratamente con uno scopo estetico e funzionale
Il tema della “funzionalità” è fondante in quest’ultima collezione, ma è circoscritto all’abito?
No, è un discorso che riguarda l’intero percorso progettuale e produttivo. Secondo me definire un abito un “prodotto” non vuol dire sminuirlo ma conferirgli quell’autenticità che il design da solo non avrebbe. Con il mio team lavoriamo secondo una logica produttiva realista e concreta, concentrandoci sul know-how del brand.
Questa logica vi porta a tracciare un percorso di crescita. Dove vi vedete un domani e quali sono gli obiettivi ultimi di Gauhar Ali?
Crescere è il primo dei nostri obiettivi, diventando un fenomeno globale. Siamo consapevoli che il percorso sia lungo ma siamo molto analitici a riguardo, vogliamo essere continuativi seppur questo richieda grandi risorse. Non mi spaventa il futuro, ma per ora continuo ad investire sul presente e le sue possibilità.
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